sabato 30 dicembre 2017

Sogno e realtà

Più bazzico la rete e più colgo un'eclatante incongruenza di fondo. 
Mentre si passeggia tra le vite altrui - più o meno mascherati, più o meno riconoscibili - e si mette la propria esistenza in piazza, senza alcuna remora (vedi gallerie fotografiche dei rendez vous amorosi, o dei figli in costume da bagno, o di angoli suggestivi della propria casa o del proprio involucro), si avverte un forte bisogno di pulizia e verità. Di onestà. Di chiarezza nelle parole e coerenza nei pensieri. Vorremmo certificare che quanto leggiamo e vediamo corrispondesse al vero, ci piacerebbe che i furbetti del quartierino, marpioni e mistificatori, venissero messi alla gogna.
Ed ecco una serie di giustizieri pronti a sbrogliare la gabola, a smascherara la contraddizione, a piazzarsi sul petto la stella dorata.
Ora, come posso chiedere trasparenza ed esattezza a qualcuno che non ha volto e (spesso) nome? Mi sembra una battaglia persa in partenza, un inutile dispendio energetico, un punto d'arrivo tanto astratto quanto evanescente.
Ecco, io vado d'istinto, altro non so fare. Ascolto il suono della parola scritta, sento (o non sento) di poterla associare ad un'anima, mi avvalgo di quattro vibrazioni e di una manciata di corrispondenze. Corrispondenze con me, con quel che sento, come quando un libro mi piace e lo sottolineo tutto. E poi ne compero un altro, dello stesso autore. 
E' sempre la stessa storia, posso scegliere.


Ho sognato che facevo fuori un sacco di gente, reduce da un film visto su Netflix e proposto dalla frangia maschile. Ieri sera toccava a loro.
Mai sognato di ammazzare qualcuno, di solito recitavo nel ruolo di vittima.
Il problema era che tutte quelle mosse vorticanti per aria mi avevano stancato un mondo. E ad un certo punto, quando ero lì lì per assassinare una tipa orientale che si dimenava da matti - legandole un sacchetto in testa - ho detto: "facciamo che ti chiudo qui dentro a chiave e la finiamo lì". 
E così è andata.
Stamattina però sono distrutta, troppo lavoro notturno.

martedì 26 dicembre 2017

E' inverno ma

Mi è piaciuto quando la collega ha letto con il microfono le poesie dei miei ragazzi. Bellissime. Mi è scappato da piangere, ma io non faccio testo.
Mi è piaciuto cantare con loro Feliz Navidad e alla fine: "Hyaaa!", l'urlo cowboy che avevo promesso. Credevano che non avrei avuto il coraggio. 
Mi è piaciuto il mare. Come l'ho visto mi son tolta la giacca e ho tirato su i capelli, perchè pareva di colpo un poco meno inverno.


Mi è piaciuto il pacchetto rosso, la sorpresa dei biglietti per il mio concerto. Chissà se Giuliano lo sa, che ci incontreremo.
Mi è piaciuta una cena alle sei, che si era saltato il pranzo. Raccontarsi cose stupide di noi ragazzi come fai al primo appuntamento, quando vuoi mostrare tutto di te.
Mi piace la Olli che starnutisce quando sbuccio un mandarino e poi si incazza e abbaia.
Mi piace restare in pigiama, studiare, guardare vecchie foto, scrivere a qualcuno che non sento da un po', rivedere "Io e Marley" ma senza volume. 
Mi piace il via vai di cappotti e giacconi e scarpe bagnate in corridoio. Poi mi piace il silenzio assoluto, il mio, il nostro.
Sta andando tutto bene, che meglio di così.

venerdì 22 dicembre 2017

Fil rouge

Qualche giorno fa, nel bel mezzo di un fitto scambio whatsapp con un'amica di blog (alle soglie della mezzanotte, mentre la mia dolce metà dormiva saporitamente), è riemersa come un pezzo antico e sepolto la parola strana
Ci si raccontava le infanzie (incredibilmente parallele e conformi) ed è saltato fuori che pure lei ha fatto i conti con le vessazioni dei pari. Dispetti, pizzicotti, spintoni, male parole. E l'indifferenza, che è poi il peggiore degli oltraggi: stai fra noi, ma non sei una di noi.
Così messaggio dopo messaggio, lei a un certo punto scrive: "sai, io ero strana". Di colpo mi si spalanca una porta, come sbattuta dalla corrente d'aria: per magia si materializzano le popolarissime sorelle Palcich, secche come candele, scure come l'inferno.
Io avrò sette anni, sono seduta per terra a travasare la ghiaia da una mano all'altra. Passano dietro di me, mi assestano un calcio sulla schiena. "Strana!", urla la più grande mentre si allontana e mi pare la cosa più brutta al mondo, quella che decreta lì e sempre decreterà, la mia condizione esistenziale. 
Mi porto a casa l'infamante epiteto con la necessità di fare chiarezza e mi guardo attorno.
Nel palazzone popolare in cui viviamo, l'inquilino del sesto piano entra ed esce dal carcere a mesi alterni. La madre della mia compagna di giochi fa un mestiere che non capisco, ma va in strada alle otto di sera e rientra all'alba. Il fratello adolescente del dirimpettaio ruba motorini e lo racconta, ne va fiero.
Mio padre suona l'armonica a bocca, sforna panettoni dorati degni di un mastro pasticcere, insegna all'università e porta scarpe da ginnastica. Mia mamma non si fa la messa in piega, esibisce jeans attillati e qualche volta si dondola con me sull'altalena. Per diletto e per arrotondare, infila perle e fa lunghe collane variopinte che la merceria del quartiere espone in vetrina. Io ho la tessera della biblioteca, sono l'unica in classe a non essermi comunicata e a non indossare il fiocco sul grembiule. Leggo tanto e non guardo la tv perchè papà pensa che potrebbe nuocermi molto.
Siamo strani, sono strana: è un dato di fatto.
Da lì è un'altra storia. La voglia di essere assimilata e non difforme, il bisogno di appartenere e di confondermi nel mucchio, ha segnato tutti gli anni a venire.
Ma l'altro giorno, mentre salivo in auto per accompagnare a scuola Edo, tutta avvolta nella sciarpona rossa, l'ho sorpreso a guardarmi di taglio.
"Sembri un cartone animato", mi ha detto sorridendo, e so che voleva farmi un complimento. Mi piace essere una mamma così, un po' disegnata, un po' rompicoglioni, che bacia troppo e si scalda con niente. Mi sa che è tutto merito di quella strana, che giocava con la ghiaia seduta per terra.

giovedì 14 dicembre 2017

La Storia e noi


Mi piace da matti questo momento dell'anno scolastico, perchè i Greci sono agli sgoccioli. Nelle ultime lezioni dicembrine racconto di Socrate e Platone e Pitagora, della bellezza del porsi domande, del cercare risposte. E mentre i miei alunni tutti invasati, lanciano le questioni più astruse sull'esistenza, l'universo e la realtà metafisica, ecco che zac!, arrivano i Persiani.
Ma come, i Greci stavano tanto bene e si espandevano ovunque, proliferavano e se la godevano un mondo fra banchetti e tragedie, cosa mai poteva minacciarli? I Persiani, proprio loro.
Per la prima volta i bambini incontrano la Storia, che non è più solo artigiani e commercianti, uomini timorati che coltivano orzo e raccolgono datteri, scribi saggi e potenti re dai variopinti copricapi. Ora sono abbastanza grandi per la Storia degli uomini, del divenire concreto dei loro gesti nel corso del tempo, delle tendenze innate che li hanno guidati e ispirati: potere, giustizia, amore, fame, conquista.
E le Termopili non sono un passaggio de "Il Signore degli Anelli"; il manipolo di spartani che presidia l'unico varco percorribile dalla truppe di Serse, non è un esercito di orchi o di nani. Si parla uomini veri, fieri, disposti a morire.
Oggi, mentre raccontavo della feroce esecuzione degli ambasciatori persiani da parte di Leonida, una bambina tendente al pallore ha interrotto la lezione per chiedermi turbata: "maestra, ma è tutto vero?".
Perchè questi bambini, ai quali evitiamo con cura ogni tipo di stress o frustrazione, non si confrontano mai con i temi forti della vita. La morte, il dolore, la paura, la perdita. O meglio, capita pure che ci si debbano confrontare, ma c'è sempre qualcuno pronto a smussare, attutire, distrarre.
La vita è un cammino senza ostacoli e le asperità sono di un altro mondo, virtuale o sideralmente distante.
Così a loro parrebbe giusto che Leonida, valoroso guerriero, tornasse da ogni battaglia vittorioso, acclamato dagli spartani festanti e accolto dalla bella Gorgo.
Sembra invece che Serse, dopo aver sconfitto Leonida alle Termopili, abbia conficcato la sua testa su un palo. Da lì alla guerra del Peloponneso è un attimo, e si sa bene che quando la guerra la fai a casa tua, sei alla frutta.
Erano molto delusi, perchè è finita male. Ma le cose a volte finiscono bene o benissimo, altre male o malissimo. E' così che va attraversata la vita, a braccia spalancate, prendendo questo e quello.
Gliel'ho detto.

giovedì 7 dicembre 2017

Amori piccoli, amori grandi

L'altro giorno i bambini a scuola mi hanno chiesto se da piccola mi sono mai innamorata. 
"A volontà!", ho risposto ridendo.
Avevo tre anni la prima volta, stavo all'asilo. Ho un'immagine molto precisa di questo Matteo coi capelli nerissimi e la pelle olivastra, di noi due seduti sulla panchina sotto l'albero mentre tutti gli altri bambini corrono attorno.
E lui mi racconta che sua mamma ha un negozio, che vivono in una bella casa, che se lo sposassi potrei comprarmi un mare di fermagli per capelli. Allora gli dico che lo sposo.
"Ma poi non l'hai sposato maestra!". Come fossi stata scorretta, a non onorare la promessa.
La seconda memorabile volta ero in seconda elementare. Lui era un compendio di tutti i migliori pezzi da principe azzurro: capelli d'oro, corporatura snella, occhi blu, mani delicate e piglio sognante.
Mi faceva letteralmente tremare le gambe e lo tempestavo di biglietti, quelli d'ordinanza a risposta multipla.


Alla fine aveva capitolato, mettendo una bella croce sul "SI", ma nel giro di poche settimane era giunta in classe una nuova compagna, la Louise. Come il nome fa intendere, possedeva il fascino esotico della forestiera ed esibiva inimitabili trecce rosse. Inoltre in Inghilterra (terra estrema che immaginavo teatro di battaglie tra paladini che si contendevano il suo cuore ribelle) aveva visto in anteprima tutta la serie di Happy Days e spoilerava a pochi intimi.
Com'è ovvio, il principe se ne invaghì e mi dimenticò.
"Però non è giusto maestra! Si era fidanzato con te!". Che loro puntano tutto sulle promesse che van mantenute, sui giurin giurello, che altrimenti non ti invito al mio compleanno e non sono più tuo amico.
"Meno male che poi hai trovato un altro", ha detto la più romantica. "Invece degli anelli ti regala le carte geografiche, ma ti ama lo stesso".

venerdì 1 dicembre 2017

Muri


Mi sono sempre vissuta come un essere gentile, cagionevole, da trattare con estrema premura. Una yes woman frangibile e caduca, che pur assecondando l'altrui volere faceva appello agli istinti protettivi, induceva negli altri gesti di cura. Quella che si definisce una ragazza dolce, una donna amabile, alla quale non si può che voler bene, alla quale non si può dire di no.
Se guardo molto indietro invece, scorgo altri segni, gli stessi che mi animano gli occhi e il passo in questa recente fase della vita. Ero una bambina caparbia, svelta, piena di iniziativa. Avevo sete, fame, mordevo le cose, volevo aprire porte, volevo dire la mia.
Poi mio padre e la paura dell'abbandono, l'angoscia di nuotare da sola nell'oceano, l'amore ad ogni costo altrimenti il dolore grida troppo. Poi un ragazzo uguale a me, due solitudini, i bambini attaccati al collo, biberon e passeggini,  la pizza domenica sera.
E me la sono voluta dimenticare quella tosta, decisa, capace di farsi una carezza. Ho voluto raccontarmi che ero sempre stata così, di vetro, che senza l'altro ero niente.
Ed è proprio lì, mentre ti infagotti e ti nascondi, che la verità ti chiama. Perchè succede qualcosa, qualcosa di imprevisto e impovviso, che irrompe e abbatte e spezza, che butta giù i muri attorno. Qualcosa che ti scaglia, anche se ti aggrappi ovunque, nelle cose che stanno fuori, con tutto il loro carico di strazio e meraviglia.

Insomma mi hanno detto che ci sono stati dei commenti, sul mio modo di stare al mondo, di rimanere ferma e salda su quello che credo e voglio, senza negoziare o venire a patti. Dei commenti pesanti, che mi disegnano come una manipolatrice e stratega, che plagia e orienta a suo piacere le deboli menti. 
Ho riso. Perchè so io cos'ero, so io quanto mi costa essere quello che sono. Accogliere la mia natura giusta e battagliera, lasciare spazio al "no", non temere il diniego, il rifiuto, la posizione dell'altro, quando opposta e discorde. Posso non piacere, questa è la grande verità, posso accettare di non essere amata: basta non perdere me.
Ho riso, ho alzato le spalle, un poco incredula, un poco fiera.

venerdì 24 novembre 2017

Human


Che il mio fidanzato non sia per nulla geloso, è cosa nota. Pure quando sono arrivati a casa mazzi di fiori e scatole di dolcetti inviati da anonimi estimatori ha reagito tiepidamente, con blande alzate di spalle e sorrisi di sufficienza. Ci scherziamo su, ingaggiamo diatribe sul mito della gelosia, che nel suo pianeta non esiste e nel mio invece regna sovrana.
La questione è sempre quella, dipende dalla sicurezza in se stessi e bla bla bla. Mi sono molto stancata di analizzare: son così, chiusa la faccenda.
Il moroso è anche a conoscenza del fatto che nella pole position degli estimatori si trova il nostro benzinaio. Un uomo, un programma. A seconda di come sono allestita per andare al lavoro (a volte sono ispirata e ho più tempo, altre infilo una felpa e un paio di jeans al volo) sceglie un vezzeggiativo adatto, nella vasta gamma di cui dispone. Si va dal tenero "tesoro", passando per "bellissima", fino alle mezze frasi in friulano, che lasciano intendere quanto potrebbe farmi divertire se solo gli dessi l'opportunità.
Ma ieri mattina si è superato. Conclusa l'operazione e al momento di pagare, ha trattenuto la tessera della benzina che mi stava restituendo. Come dire, io tiravo e lui non mollava.
L'ho guardato in faccia nel tentativo di esprimere un: "e quindi?" e lui ha pronunciato un fremente "amor...", tutto spagnoleggiante. Lì, con la tessera contesa a mezz'aria.
Meno male che c'era la coda, che quello dietro aveva fretta. Sono risalita svelta in auto con un rapido sorriso molto imbarazzato. Lui zero, zero disagio, pareva invece assai soddisfatto.
Così ieri sera racconto ridendo al fidanzato. E, da non crederci, lui tace sorseggiando la birra. Poi tace ancora mentre posa il bicchiere.
"La prossima volta ci vengo anch'io a fare benzina", dice seccato, prima di cambiare discorso.
Ebbene, è ufficiale: è umano.

lunedì 20 novembre 2017

Ho tanto riso.

Ho tanto riso con i miei figli. Al cinema, in auto, a colazione, allo spettacolo dei burattini. Ho riso con loro sotto le coperte, per il solletico o la stupidera.
Ho anche pianto con i miei figli, se c'era da piangere. Qualcuno pensa che ai bambini non vada mostrato il dolore, ma sono stronzate. Che poi credono di dover sempre sorridere, anche col buio dentro, anche fatti a pezzi.
Ho spiegato parecchio, ma non troppo. Perchè ora sembra si debba dire tutto, con le parole dei grandi. E loro se le prendono tutte le nostre cose, le nostre parole, per amore, ma sono troppo piccoli per digerirle, troppo leggeri per non restarci sotto.
Ho commesso errori a iosa - e ancora ne commetterò - e aspetto il giorno in cui mi presenteranno il conto, ma non ho paura. 
Perchè l'amore scivola, l'amore sbanda, l'amore inciampa. Ride e piange. 
Altrimenti ha un altro nome. Dirò loro questo.

venerdì 17 novembre 2017

Luoghi che accarezzano

E' che son sempre di corsa. Che la provinciale alle 7.30 è satura di camion in arrivo dall'Austria, in transito verso la Slovenia. E viceversa. 
Che il mio parasole è rotto e viaggio inondata di luce.
Abbasso il finestrino, accendo la radio, magari mi sveglio un poco. Vorrei One Nation One Station, ma qui non si piglia. Radio Maria passa il rosario, Radio Italia i Modà (ma quanto odio i Modà?) e Radio Onde Furlane un rap dall'idioma locale.

Ayo, fradi duna setu?
i ai sintut che tu mi as cirut vue
torna clamimi che jo soi gia di fur
no sta a fa il vecjo che no tu ses tu chel!


Ed eccola lì, l'infausta auto (tristemente guidata da una donna) incollata al culo del camion. Che in quel bailamme di curve e frotte di veicoli nel senso opposto sorpassare un blocco di dieci metri è un atto suicida. Allora impreco molto e mi sale il crimine. Perchè mai qualcuno dovrebbe scegliere di starsene dietro lo scarico di un camion a respirare merda, mentre una ad una le auto si accumulano nella sua dolente scia?
Non c'è dato di saperlo.
Butto un paio di volte il muso fuori, nervosamente, ma il traffico é denso. Finalmente il mio bivio, son quasi arrivata.
Mi basta svoltare, imboccare il viale alberato e costeggiare la fila di tigli gialli. La casetta rossa in fondo alla strada mi cambia gli occhi e il verso dei pensieri. Buona giornta maestra.

La scuola d'inverno

    

domenica 12 novembre 2017

Sabato sera



Da una decina d'anni lo rincorrevo. A Trento me l'ero perso per un pelo.
Come una scolara giudiziosa ho preparato le parole, tutte in fila. Volevo sapesse che quando facevo luce dove prima c'erano ombre, lui era con me, sempre. Che mi ha insegnato la sottrazione, la bellezza del disadorno. Che la musica asciutta del suo raccontare, è stata cura.
E poi mi ha spiazzato che fosse così, fragile, di schiena nella hall del teatrino con la gente che sgomitava per fargli un saluto. 
Io un passo indietro col mio libro in mano, il sorriso fesso, la sciarpa rossa. Ci siamo stretti la mano e guardati negli occhi, io ho balbettato "ciao Erri". 
Neanche una cosa sono riuscita a dire, neanche una.

Ieri sera con gli occhi aperti sotto il piumone però, ho capito che cos'è per me, felicità
E' avere un sogno, o piccoli sogni.
Che poi non importa realizzarli a tutti i costi. Ci si prova, e intanto si è molto felici.
Grazie Erri.

giovedì 9 novembre 2017

Giorni storti

Quando son triste così, faccio due conti sulle dita. Quanti giorni al ciclo? Tabellina del sette. Sette, quattordici, ventuno. Se sono prossima al d-day allora archivio tutto nel cassetto "ugge e fisime premestruali", altrimenti guardo a che punto sta la luna. Perchè di norma, due o tre giorni prima del plenilunio attraverso una fase di catastrofismo/pessimismo cosmico che neanche i decandentisti.
Ecco, oggi nè l'una nè l'altra. 
Eppure non pesco un pensiero luminoso che sia uno. Un progetto, un ricordo, una voglia di gita, una wish list, un cappottino verde da stanare, un libro di ricette da aprire sul tavolo di cucina. 
Anzi, a dirla tutta, i pensieri luminosi pure ci provano ad affacciarsi, ma una mano diabolica e maligna li strapazza e me li restituisce a testa in giù. Così ad esempio il progetto diventa qualcosa che da troppo tempo accarezzo in maniera inconcludente, da inetta e fallita. O il cappotto verde, che cade così bene a quella stitica di modella, a me starà da cani, neanche star lì a perderci tempo. E la ricetta senz'altro riuscirà di merda, portando via un sacco di tempo a più assennate e costruttive occupazioni come studiare o stendere la lavatrice (e giù sensi di colpa a manetta).
Se poi, per distrarmi un poco mi dedico alle cure di bellezza - maschera idratante, balsamo rigenerante, olio  levigante - dio ce ne scampi. Che in questi momenti lo specchio va bandito.
Sono triste. E quando sono triste così, non so perchè, penso ad un buco nella terra tutto ricoperto di foglie secche e profumate. Star ferma lì, lasciarmi tenere, lasciare che il mondo vada dove deve andare, ma senza di me. Solo per un po'.


sabato 4 novembre 2017

Cambiare sguardo


Il tema su cui sto da qualche giorno è quello della realtà viziata dal vissuto. Delle cose che vediamo e che inevitabilmente passano attraverso il nostro sguardo spurio.

Abbiamo sempre bisogno di categorizzare. Incasellare. Definire.
Mettere giù paletti e tirare righe che stabiliscano confini, limiti. Di là i buoni, di qua i cattivi. I giusti e gli ingiusti, i fedeli e gli infedeli, quelli che usano parole e gesti che ci somigliano e quelli che invece non riusciamo a comprendere ma ai quali diamo comunque un nome, per non sentirci troppo coglioni.
La mia mamma, riferendosi a qualcuno che mi ha impropriamente giudicata, dice "devi spiegare che non è come pensa!". E io le rispondo che non spiego proprio niente a nessuno. Che se uno vuole semplificarsi la vita con le liste e gli schieramenti e la statistica, senza prendersi la briga di chiedere,  capire, confrontarsi, per me è cosa chiusa. 
Scegliere di giudicare, denota l'incapacità di spostare le granitiche certezze alle quali ci aggrappiamo per non sentire tutto il vuoto che sta sotto. 

Facevo i complimenti ad un'amica l'altro giorno. Le dicevo che è proprio molto brava, perchè riesce ad ascoltare senza pregiudizio, senza vizio. Un ascolto empatico, che accoglie e lascia spazio al possibile. Come dire: sono pronta a tutto, il tuo racconto mi suona nuovo, lo prendo fra le mani e non lo passo attraverso un mio sentire, perchè è roba tua.
Poi è chiaro, nessuno è esente, anima e corpo portano i segni (sconfitte, trionfi, incontri, letture, esperienze...) che fanno di noi quello che siamo. Attraverso quei segni possiamo leggere la realtà, riusciamo a farla nostra, ma con tutti i limiti del caso. Di questo tocca essere coscienti.
Se sono reduce da una delusione d'amore, dovrò essere molto accorta se qualcuno mi racconta con entusiasmo e gioia di una storia appena nata. Quando a me parlano di vicende clandestine, ad esempio, mi tocca subito tenere a bada il mio angelo vendicatore, che all'istante si erge sguainando la spada: tra le mie cicatrici, è ancora la più sanguinante e inevitabilmente cado nell'errore di puntare il dito, prevedere catastrofici scenari, moralizzare da una posizione elevata.

Lunedì mattina, macchinetta del caffè.
- Volevamo andare al cinema da soli ieri sera, ma poi abbiamo deciso di stare a casa con la bambina, di non lasciarla dai nonni. 
- Non la lasci mai dai nonni, mica moriva eh. (cazzo, sono già infastidita...attenta...)
- Lo so, ma ci dispiace separarci da lei.
- Ok, poi però non venire a dirmi che siete come due estranei e che alle 9 di sera uno dorme nel letto della bambina e uno sul divano. (niente da fare, mi scappa di infierire...)
- E' che mi sento in colpa quando la lascio.
Ecco il mio tasto dolente. Ecco cos'era. Vedo Jacopo fra le braccia della nonna che mi saluta con la manina mentre vado.
- Si lo so. Mi capitava ogni volta che lasciavo Jacopo con la suocera. 
Mi sorride, si allontana.
- Buona settimana.
- Anche a te.

mercoledì 1 novembre 2017

Avanti

I miei accesi alunni
Un professore declama Palazzeschi con i suoi alunni. Si divertono, ridono, il prof gesticola che pare un direttore d'orchestra, i ragazzi recitano in coro.
Guardo questo video incantata e subito mi animo, mi scaldo, vorrei buttar giù due idee, parlare con le colleghe. Fare. Perchè in questi giorni ho un pensiero fisso.
Porto i bambini nel bosco, sono eccitatissimi e felici. Pochi hanno l'attrezzatura adatta, spopolano le scarpe con gli strass, qualcuno indossa i bermuda. Sembrano proprio elementi estranei a tutto quello che c'è intorno, nonostante mostrino autentico interesse per ogni cosa. Indicano, domandano, toccano, raccolgono. Ma scambiano delle bacche per pomodori, mi chiedono se il ruscello che passa sotto il ponte è una discarica. Poi attraversiamo un vecchio borgo di abitazioni in sasso e sento qualcuno dire quelle case sono fuori moda
Come possiamo pensare che si preoccupino di emissioni, clima e ambiente, se questo ambiente non è per loro casa? Il rispetto implica presenza, conoscenza profonda, reciprocità. Non posso aver cura di qualcosa che non sento mio, di qualcosa che vivo come distante e (forse) ostile.
E qui entrano in gioco la scuola, il ruolo dei docenti, i programmi ministeriali, le competenze.
Vedo una scuola che sempre di più si allontana dalla vita, dalle persone grandi e piccole che la abitano, dal loro modo di stare al mondo Una scuola "sulla carta", sempre più asettica e formale, con le mani legate, che non sa volare e non sa mettere ali.
Molti insegnanti sono stanchi, stremati da genitori conniventi con i figli maleducati e fancazzisti, dalla burocrazia che strozza. Altri sono incapaci di lasciar fuori dall'istituto paletti e certezze, prove Invalsi e dirigenti tiranni. 
Ma la buona scuola c'è, anche se purtroppo a macchia di leopardo.
Mi pare che se porteremo la vita in classe e la classe nella vita (bosco, mercato, ospizio, fiume...), se diremo loro - con l'arte e la poesia e le scienze - che possono ancora cambiarlo il mondo, che noi vogliamo sentire quello che pensano, che questa casa non è degli ambientalisti, del sindaco, della regione, del prete, della maestra che parla troppo, ma è il luogo in cui possono scegliere di stare davvero, autenticamente in continuità con ogni forma di vita, allora cambieranno le cose.
Mi vien voglia di dire grazie al prof che declama Palazzeschi e anche al mio di prof, che organizzava quelle riunioni carbonare di giovani lettori nel suo salotto, per il puro piacere di accendere passioni.
Perchè solo chi è acceso desidera e chi desidera sogna e chi sogna e guarda avanti.

sabato 28 ottobre 2017

Così.


Quando uno se ne va a 97 anni, pare illogico farsi dei patemi. Come se fossimo mozzarelle, con la scadenza scritta. Dopo una certa data, via nel secchio dell'umido.
Vero che ci si fa l'idea, che ci si prepara, che inconsapevolmente si pesca nel sacchetto dei ricordi per salvare in tempo le cose belle, le parole pronunciate, i gesti conclusi e rotondi. Si rispolvera, si archivia.
Io conservo l'odore dell'olio per la macchina da cucire. Le chiacchiere alle cinque del mattino, lei che mi parlava così in fretta, io che a malapena tenevo gli occhi aperti. I baci che non si lasciava dare perchè si sentiva sempre troppo sudata, o spettinata, o stropicciata. Quelli che io le davo lo stesso, e le risate che faceva scansandosi come poteva. Conservo le raccomandazione che ha fatto al mio uomo un paio di anni fa. Trattala bene, che è speciale. Altrimenti te la vedi con me.
Mi vergogno, sono andata a trovarla poco da quando stava in ospizio. Cento chilometri a separarci, cento impegni sempre e comunque, ma sono onesta, non è solo questo. Troppo diffcile reggere l'insieme, troppo doloroso, ogni volta giorni e giorni per smaltire quel senso di perdita, smarrimento, angoscia. 
Siamo fatti male, la morte cerchiamo di lasciarla fuori, vorremo occultare la sofferenza.
Da quando mamma mi ha chiamata, da quando non sono più una nipote, qualcosa gratta forte fra la gola e la bocca dello stomaco. Va oltre il dispiacere, oltre il vuoto, chiama me.
Se almeno le avessi detto mandi.

martedì 24 ottobre 2017

E' martedì


Odio il lunedì mattina.
Perchè fuori è tutto pesto, ma la sveglia suona.
Vorrei una mattina spalancare gli occhi un attimo prima, uscirne trionfante. Ma quando lei suona mi trova sempre, irrimediabilmente, impastata nei sogni.
Odio il lunedì mattina perchè resta ancora un po' a letto amore, io vado a farmi la barba, a bassa voce. Che la barba al dì di festa non si fa e dentro il letto si resta assieme. Un sogno raccontato, un libro sfogliato. Odore di notte che rimane, fra il collo e la spalla. 
Lunedì mattina invece poggio svelta i piedi scalzi sul parquet, infilo i pantaloni mentre attraverso il corridoio, attacco il bollitore, porto giù il cane e mi stringo nel maglione, che par sempre così freddo. Metto su il caffè.
Poi tocca a me andare in bagno e quando torno in cucina c'è profumo di pane tostato. Lui mi guarda, ride, dice secondo me tu sei ancora a letto e a volte - credo quando le mie chiome non paiono troppo leonine - aggiunge che sono bella. 
Il lunedì mattina stiamo con la testa alle ore che verrano e con gli occhi all'orologio che sembra non tener conto di tutto quel che ancora c'è da fare. Il bucato da stendere, i denti da lavare. Diciamo cose di servizio - le diciamo anche bene, come fossero altre cose più lievi - e seguiamo il filo che ognuno di noi ha, del mettere assieme i pezzi per uscire. 
Vuoi portare via anche tu una banana? e allora le due banane aspettano lì sul tavolo, fra le tazze e le briciole, come due carezze di scorta.
Odio anche il martedì, e il mercoledì. Quando di giovedì comincio a farci l'abitudine, è già arrivato venerdì. 
Il venerdì mattina lo odio poco, che a scuola porto anche un cioccolatino. E poi lui uscendo dice bimba, è venerdì!, e mi pare che tutto si dispieghi.



venerdì 20 ottobre 2017

Parole sparse

Due note, un po' al volo.

Ho chiamato Amazon per un reso. Ha risposto una ragazza con forte accento sardo, gentilissima. Bei modi, bel porsi, ottime capacità comunicative. Si potevano leggere, dietro la voce carezzevole e precisa, i pomeriggi sui libri, gli appunti con la bic, le mani tremanti prima di un esame.
Mi sono così dispiaciuta. Perchè quella voce meritava di meglio, anche se (come ha detto Dario) in fondo aveva almeno un lavoro. Fa male sapere che questi ragazzi non possono solcare i mari in cui hanno scelto - dopo tanto sppesare, e sondare, e spendersi - di calarsi. 
Ho pensato che io faccio esattamente ciò che sognavo fare. Che ancora adesso, ogni mattina entro a scuola piena di attese, di dolce fermento.


La mia nonna combattente, che dall'anno scorso ha avuto un brutto crollo, viaggia verso i 98 anni. Non sempre è presente, più spesso si perde in qualche oscurità e rimane distante, fra il sonno e la veglia.
In uno dei rari momenti di presenza, quelli in cui riconosce la mamma e riprende il filo di antichi discorsi, ha detto: "non vedo l'ora di fare il contrario!".
C'è tutta lei in questo dire. La sua ostinata voglia di vivere, il suo modo di guardare alle cose, con slancio bambino.
E ci sono anch'io, geneticamente oppositiva.


sabato 14 ottobre 2017

Dove lavoro io

Riunione insegnanti e logopedista.
L'atmosfera è lieve, nonostante la stanchezza. Abbiamo mangiato in piedi, sul tavolo una buccia di banana, briciole di pane, un accendino.
Chiediamo, ci confrontiamo, non sempre la vediamo nello stesso modo. La specialista fa i nomi dei bambini che teniamo negli occhi e dice che alcuni dovremo tenerli molto nel cuore. Il prof di matematica si commuove, perchè proprio non ce la fa con quella ragazza pungente e schiva. 
Una collega si alza, deve chiamare a casa per sapere come sta sua figlia. Facciamo pausa. E., seduta accanto a me, controlla il telefono, poi lo appoggia vicino al mio quaderno. Osservo lo schermo pieno di tracce: ditate, unto, una grossa incrostazione.
"Ma ci vedi qualcosa?", dico facendo un gesto circolare con l'indice.
"Puliscimelo tu, dai amica", risponde lei ridendo.
"Puoi scordartelo, non lo faccio neanche con il mio".
Poi aggiungo che i telefoni, a casa mia, li pulisce il fidanzato. E qui ovviamente lei gongola tutta e mi prende un sacco in giro, ma io lo sapevo e l'ho detto per giocare.
"Meticoloso com'è, te lo tirerà a lucido immagino!"
"Eh già", rispondo "sono una donna fortunata".
Poi si avvicina al mio orecchio con una faccia briccona da adolescente brada.
"Ma anche quando si occupa di te...diciamo...dei tuoi anfratti, è così scrupoloso e zelante?"
Le tiro una gomitata che per un pelo non cade dalla sedia. Rido.
"Ma non scherzavo!", dice allargando le mani "in quella situazione è fondamentale la continuità!"
Continuo a ridere. Tutti si voltano e qualcuno chiede di cosa stiamo parlando, ma la pausa è finita.
Le faccio segno con la mano. Ti rispondo dopo.
Prendo la penna, ho un sorriso che resta.

mercoledì 11 ottobre 2017

Di quel che sono

Cinque anni.
Alla fine di ottobre di cinque anni fa, si chiudeva un'era ed iniziava per me un tempo di rivoluzioni e cataclismi e sovvertimenti tali, da rendere impossibile scorgere - a posteriori - una qualsiasi continuità fra il prima e il dopo. In un crescendo distopico che neanche nei peggiori sogni avevo potuto mettere in scena, la mia vita perdeva contorno, sostanza, peso.
Non mi par neanche vero, adesso.
All'origine di ogni cosa c'è una giovane donna affacciata alla finestra su una piazza rovente, gialla, eterna e bella da commuovere. Sotto di lei, le tante strade che la sua paura ha scelto di non percorrere, e gli sguardi che non vuol notare, e le carezze che si è negata. Tutto lì sotto, che basta dire .
E il consenso che le scappa dagli occhi - rauco, colmo, liquido - scende giù ad ali spiegate, portando distruzione e macerie.
Ci sono schegge di quel tempo che ancora non so tenere tra le mani, senza ferirmi. Segreti, bugie, auto in corsa, un paio di sandali altissimi e dorati. E poi lacrime, olio di mandorla, cuore nero e notti bianche. Gocce direttamente in bocca per non sentire più niente, sigarette fino a togliere le voci. Toccati adesso, dimmi che lo stai facendo, ma i bambini hanno fame e il purè si attacca.

Mi hanno chiesto se rimpiango la pelle che brucia. gli occhi rossi di febbre, il passo morbido che mostra carne e desideri. Se un poco, anelo al tormento.
Non ci ho dovuto pensare. Perchè questa me tiene spazio per spaghetti e risate, notti accoccolate, occhi di bimbi e lezioni appassionate. 
Conserva un po' di quel languore nella schiena che si inarca, accogliendo una carezza.


sabato 7 ottobre 2017

Cause


Non ho mai sentito l'urgenza di battermi per la salvaguardia dei cuccioli di foca o di manifestare al fine di scongiurare l'estinzione della tigre bianca siberiana. Non lo ritengo mica inutile, o di scarsa rilevanza. Anzi.
É solo che da tempo immemore il mio cuore trova risonanza con gli umani patimenti, con le ugge ed i tormenti di chi se ne sta solo, sul cuor della terra.
A otto anni mi spendevo con ardore da suffraggetta affinchè le "femmine" non fossero escluse, per tacito accordo, dai giochi dei "maschi". Riunivo le bambine e parlavo loro di parità e diritti.
Ritagli di quella veemenza restano all'attaccatura dei capelli, nell'incavo biancolatte del braccio.
Ora mi sale su una rabbia pazzesca perchè sento qualcosa che non va, che non torna, nelle nuovissime generazioni. Parlo di creature che adesso hanno meno di 15 anni, che ho modo di ascoltare, percepire, cogliere, osservare. Non solo in classe.
E' come se tutto attorno a loro fosse sfocato, come se i loro corpi e i loro sogni si collocassero in un migliore altrove, indefinito. Raggiungerli è sempre più difficile, tenere il loro occhi è una sfida. Anche i più puri, quelli con famiglie attente e presenti, spingono con forza il limite e occupano luoghi inadatti, stereotipi sempre più stretti e svuotati da ogni incanto.
Cantano 'sta merda qua:

Come il crimine, senza regole
come le ragazze con il grilletto facile
entriamo senza pagare
come dei calciatori di serie A
ci guarda tutto il locale
ma alla fine nessuno ci toccherà.


I calciatori di serie A.
Il grilletto facile (e lasciamo correre il doppio senso, che forse non colgono).
Ci guarda tutto il locale.

Poi però hanno dita frementi e occhi pieni di fame. Una fame che saziano male, in un modo che mai appaga.
E noi dove siamo, cazzo? Vogliamo smetterla di giustificarli? Ci prendiamo la responsabilità e l'onere di offrire una sponda, uno scorcio di bellezza, un abbraccio, un no senza repliche, un pianto sincero? Sappiamo mostrare che è possibile sollevarsi, cambiare prospettiva? Riusciamo toglierci di mezzo, a smettere di fare i genitori idiotamente perfetti, a non sostituirli malamente, ad avere un peso? Possiamo incazzarci se non fanno i compiti e non mettergli in mano un cellulare quando hanno appena imparato a scrivere, per placare la nostra ansia da separazione? Ce la facciamo a capire che sono così tanto SOLI?
E' una tragedia, io lo dico.

domenica 1 ottobre 2017

Italiana media


Il mio weekend è iniziato con una dose di raffreddore fotonico e un messaggio della vicina di casa, giuntomi nelle prime ore del mattino. Premetto che la donna in questione è una single sui 45 con due cani tipo Laika parecchio fastidiosi: scendono e salgono le scale abbaiando come un'intera muta groenlandese, fanno il diavolo a quattro se lei si assenta, aggrediscono ringhiando chiunque transiti nelle zone comuni, ospiti compresi.
La vicina dedica loro l'esistenza. E non aggiungo altro.
Scusa se faccio la zitella tignosa, ma c'è una cacca di Olli che non hai raccolto e se i miei cani la calpestano la portano in casa. Credo che la buona educazione...
E qui parte il sermone da bacchettatrice, che vi risparmio. 
Tre cose soltanto.
1) ciclicamente (ma troppo spesso per i miei gusti) mi attribuisce cacche che non ci appartengono, considerato che io MAI oserei lasciare in giro merda (in senso lato e non);
2) fino ad ora avevo evitato di esprimermi riguardo agli stolidi quadrupedi di sua proprietà, guidata dal principio di tolleranza. Se i latrati ci svegliavano (perchè è accaduto anche questo) infilavamo i tappi nelle orecchie e via;
3) detesto, ma veramente de-te-sto le storie di vicini dispettosi e ripicche a catena: mi son sempre detta che capita a gente molto insoddisfatta e triste e squallida.
Morali della favola:
- la tolleranza è un valore misconosciuto
- se taci prima o poi ti inculano
E ultimo, ma non ultimo:
- la prima gallina che canta ha fatto l'uovo.
Che secondo me, c'entra.

giovedì 28 settembre 2017

Case e parole


Non ho tantissimo tempo per scrivere ultimamente e quando finalmente mi scavo mezz'ora, le vocine smaniano, si dannano. Finiscila di perder tempo in  cazzate, torna sui libri!
Ma siccome sono campionessa di orecchie da mercante, spernacchio le vocine e accendo il pc.
Durante l'estate ho avuto modo di saltabeccare in rete e di scovare diari sconosciuti, redatti da autori a me ignoti e commentati da altrettanto ignoti lettori.
A volte fa bene uscire dalla "comfort zone", addentrarsi in qualche inesplorato territorio che forse ci somiglia poco, ma fa luce su altre e nuove prospettive delle quali tocca sempre e comunque tener conto. In fondo, pare che la rete rappresenti in qualche modo la realtà, sia un po' lo specchio dello spazio/tempo che fisicamente attraversiamo ogni giorno.
Così mi è saltato all'occhio qualcosa che prima, da neofita, non avevo mai visto o colto. Ho avuto l'impressione che in molti casi si faccia ingresso nella casa di un altro con l'intento di scoprire polvere sugli scaffali, piatti nel lavello, letti disfatti, cibo scaduto in frigo. Sembra che in molti, alberghi il segreto piacere di cogliere in fallo, ravanare fra le contraddizioni, richiamare alla coerenza, bacchettare e mostrare la vera verità. Ma mica su temi scottanti, incisivi o fondanti. No no, è sufficiente dichiarare una smodata passione per le scarpe tacco dodici e il primo che passa butta là una pesantezza di commento in cui pesta duro sulla natura caduca ed effimera dell'uomo. Basta dire che le auto costose le guidano quelli col pisello piccolo, e giù teoremi infiniti sull'emancipazione femminile o i genitali dell'elefante indiano.
Sarò io che semplifico troppo. Che non guardo a questo spazio come l'occasione di salire in cattedra o di istruire e illuminare in qualche modo. Che se frequento la casa di un altro, le pagine del suo diario, è perchè le parole che sceglie hanno un senso per me: mi fanno bene o mi fan pensare.
Da parte mia cerco di raccontare le cose a modo, ma tratto argomenti assolutamente personali e piuttosto irrilevanti, che non chiedono di rimanere inscritti chissà dove o di risvegliare coscienze sopite. Mi appartiene il taglio soggettivo e diaristico, perchè da sempre la mia voglia è quella di dare corpo e voce all'ordinario: una foglia secca, un telo da mare blu, biscotti nel barattolo, post-it fra le pagine di un libro, insetti marroni (e questa è per l'amico Pier).
Ecco, nello stesso modo in cui entro a casa d'altri senza avvertire l'urgenza di passare un dito sulle mensole e scelgo chi frequentare col setaccio della prossimità, mi piacerebbe che nelle mie stanze colme di parole l'ospite trovasse piacevole stare. Nell'affinità e nella divergenza, con riscontro e confronto, nel silenzio e nel sapido dibattimento. Ma con il rispetto e la disposizione d'animo che ogni sano scambio contempla.
Leggermi può garbare, annoiare, dar fastidio. L'imporante è sapere che in giro c'è davvero tanto altro.

venerdì 22 settembre 2017

Due paia di occhi

Insieme viene dal latino volgare insemel, che a sua volta deriva da insimul (nello stesso tempo).
Quindi insieme ha a che fare con la simultaneità. Allora non basta un banale "stiamo insieme" per definirsi coppia, serve anche stare (in uno stesso spazio, quando possibile) simultaneamente. Che se due "stanno insieme" e fanno vite troppo parallele, viene a cadere il principio numero uno.
Domenica mi sono molto arrabbiata con me, e continuo a guardarmi storto. 
Ma tocca fare una premessa. Ci sono uomini/donne dallo spirito indipendente, esplorativo, svincolato, che sentono il rumore della vita anche quando c'è silenzio. Ce ne sono altri che possono attraversare l'esistenza soltanto insieme, perchè tutto si compie nella comunanza di sguardi, passi, parole.
Ovvio che gli assoluti non esistono. L'uomo asociale può apprezzare una buona e discreta compagnia, l'individuo più gregario desidera anche spazi intimi e contemplativi.
Ecco allora che in percentuale, nel solito grafico a torta, la mia natura risulta più o meno questa:

Sia chiaro, mica vuol dire che il 90% del mio tempo lo passo simbioticamente avvinta ad uno. No, perchè io sto parecchio in relazione e comunanza anche per lavoro. Che i bambini ti abbracciano, ti fagocitano, ti danno baci molto bavosi e questo colma assai il mio anelito alla prossimità.
Poi ci sono i figlioli. E le amiche. E la mia mamma, che però è lontana. 
Ma tanta roba resta vacante, e quella inevitabilmente si posa sulla testa dell'uomo che amo. 
Il caso vuole (ma una mia terapeuta diceva che la vita ci pone sempre delle nuove sfide, sta a noi accoglierle o dribblarle) che lui appartenga alla categoria sopra citata uomini dallo spirito indipendente, esplorativo, svincolato, che sentono il rumore della vita anche quando c'è silenzio.
Insomma un bell'affare.
Così domenica per una serie di concause, mi sono ritrovata a mettere parole a questa mia esigenza di guardare le cose con due paia di occhi, di affacciarmi ovunque sul mondo spalla contro spalla, coi pensieri che si leggono e le storie che si raccontano. Di mostrare qualcosa col dito, anche in silenzio, di seguire il dito di un altro che mostra, e sentire che lo stupore e la bellezza si dilatano nelle cassa di risonanza delle bocche schiuse. Di ritornare verso casa un po' confusi, un po' arrossati, di fermarsi a bere una Guinnes allungando le gambe sotto il tavolo e pensare a cosa buttare su per cena.
E mentre dicevo, piangevo e piangevo forte, che ero così affranta d'esser fatta come il grafico qui sopra, e di non provare quel piacere nel fare le stesse cose da sola. Che si può fare le cose belle assieme e poi anche da soli, ma non mi entra in testa neanche se me lo sbatto giù col martello. 
Perchè il 10% lo raggiungo in un attimo. Calcolando il percorso casa-lavoro, è quasi già andato.

giovedì 14 settembre 2017

Volevo essere grande


Hai presente quella che sta dentro di me, quella di 15 anni?
La conosci, divora un'idea piena d'urgenza e poi ne sputa il seme per andare a spasso, con anima a rovescio, assente.
Disdegna le incombenze, le scadenze, fa spallucce, poi tira su una coda di cavallo e guarda altrove.
Sogna. Ma senza riguardo per le tasche capovolte, il tempo avverso, mani chiuse o bocche aperte. "Adesso!" dice, e applaude lieta mentre attende l'avverarsi.
E' gelosa, rissosa, ombrosa. E' fremente, scioccamente sorridente. E quando sorride, danza.
Ti fa tremare coi suoi piedi snelli, con l'odore d'erba negli abbracci e nei capelli? Allora passa oltre agli inciampi, ai vuoti a perdere, ai sobbalzi.
Guarda, la porti via con niente: un sasso azzurro, una spiga di lavanda, quattro o cinque luci in un caleidoscopio.

domenica 10 settembre 2017

Post molto fazioso in cui esagero un po' (ma solo un po')


Per quanto riguarda l'alternarsi delle stagioni, a casa mia ci si schiera in modo drastico e tombale: primavera/estate vs autunno/inverno. 
C'è poco da dire, da spiegare. I fautori della granita contro gli adepti del minestrone.
Chi mi conosce, sa: viva le Havaianas e a morte i MoonBoot.
Con la stessa veemenza e ardore scende in campo la fazione opposta, sbandierando argomentazioni inoppugnabili, tipo: "le manopole di lana sono bellissime", "il freddo vivifica", "la luce invernale è perfetta", "vuoi mettere quando nevica", "i colori dell'autunno sono impareggiabili", e "pensa a quando accendi la stufa e fuori fa meno cinque". 
Nessuno osi eccepire che la bellezza sta nei contrasti, che non apprezzerei il tepore se non attraversassi il rigore, che si deve vivere il momento (in quanto ogni tempo svela i suoi tesori).
Io ho sempre vissuto il cambio dell'ora, la luce calante, l'avvento del primo maglione come una sorta di lutto, al quale bene o male ho fatto fronte. Addio ginocchia sbucciate, mattine pigre, frinire di grilli, latte e menta, capelli incrostati di sale e sabbia tra le dita dei piedi. Benvenuti compiti, sferzate di Bora, cappotto verde muschio (che sotto puoi pure metterti il vestito giallo limone e non lo vede nessuno), sveglia che suona, finocchi lessi, sciroppo per la tosse.
Così da qualche giorno è iniziato il siparietto. Io sbuffo e mi avvolgo in una coperta, lui con un sorriso largo rispolvera felpe e giacchetti. Io sospiro guardando il sole eclissarsi all'ora del tè, lui si compiace dell'oscurità mattutina, che fa tanto Norvegia.
Naturalmente ognuno ha i suoi accoliti, e quando la famiglia allargata è al completo le compagini si affrontano trascurando ruoli e gerarchie.
Ma quest'anno non voglio essere colta alla sprovvista. Perchè, pur sottolineando che mai e poi mai rinuncerò alla glorificazione dei mesi più caldi, è ovvio che opporsi al moto di rivoluzione terrestre risulta piuttosto inefficace.
Quindi affronterò l'annuale traversata nelle terre estreme organizzando il giusto equipaggiamento (atto a scaldare corpo e anima), come ogni provetto esploratore insegna. Sicuramente necessito di:

- scorta di preparati per cioccolata calda, gusti vari
- cappotto blu a godet - stile zarina -
- per la serie "non ho mai le scarpe adatte", delle scarpe adatte
- un plaid fatto a mano - punto riso -
- collezione di calze parigine a righe, rosse, verde smeraldo, azurro cielo
- un buon liquore all'uovo, che vorrei produrre da me (ma è un'ipotesi forse troppo romantica)

Ed ora, un bel respiro e sono pronta a partire. Che dio ce la mandi buona.

mercoledì 6 settembre 2017

Benvenuto rancore


Non è che tutta la gente con cui lavori ti deve andare a genio, si sa.
Nel mio ambiente in scala ridotta, dove il gomito a gomito è d'obbligo, si potrebbe idealmente auspicare ad un filo di sana tolleranza reciproca. Invece no, se uno è stronzo, è stronzo. 
Un po' tenti il confronto e il dialogo, un po' eviti, ma a volte finisci proprio per troncare. Bello non è, considerando le situazioni in cui tocca fare buon viso indossando smaglianti sorrisi: riunioni docenti, colloqui con le famiglie, plenarie scolastiche.
Fino a prima, prima della consapevolezza che nella vita mi è concesso formulare apertamente opinioni che altri possono non condividere (non cadrò colpita da una folgore, non verrò crocefissa, non resterò sola fino al giorno della mia morte, ecc...) ero stata un po' amica di tutti. Che significa avere una struttura così liquida e plasmabile da infilarsi in qualsiasi bottiglia. Che suona tanto vile e opportunistico, da potersi definire "paraculismo". 
In verità, ero terrorizzata dall'idea di perdere. La disapprovazione, il contrasto, il conflitto, mi parevano l'anticamera di penosi e laceranti abbandoni.
Dopo, quando tutto ha preso un altro corso (e purtroppo è storia recente), ho recuperato con gli interessi. Non sapevo capacitarmi di cotanta libertà: davvero potevo dissentire, inveire, colpire e affondare? 
Ecco, vuoi perchè furori e veemenze li ho coltivati fuori tempo, vuoi perchè nasco fatta di tiepida polenta, d'essere bastarda non mi è mai riuscito. Costituzionalmente. Magari sbotto, faccio caciara, mi inalbero, piango, uso il turpiloquio, ma la sottile arte dell'infamia non era roba mia.
Fino a qualche mese fa.
Quando hai a che fare con creture preziose come i bambini e con i loro genitori (oggi molto ansiosi e fragili), è un niente che rischi il rogo. Chiedi di riordinare le classe e li hai schiavizzati, intimi il silenzio e castri il loro bisogno di espressione. Per dire.
Ecco, io tempo fa ho voluto tutelare qualcuno, evitandogli la gogna. Ho fatto sì che alcuni fatti venissero messi nella giusta luce, per scongiurare un clima di caccia alle streghe, così facile da nutrire e fomentare. Ho preso, per questo qualcuno, una posizione precisa, anche se fra noi non correva buon sangue. Sono stata oggettiva e pulita, nonostante le troppe incomprensioni.
Ebbene, adesso questo qualcuno ha creduto che non fossi degna dello stesso trattamento. Ha deciso di raccogliere le mie schiette parole e le ha intagliate, mozzate, affilate. Ha riferito frasi e gesti strappati dal contesto, per dar corpo alle sue insinuazioni, ha usato ingegnosi strumenti fuori dalla mia comprensione. Con la stessa espressione sorridente che mi riservava ogni mattina, ha inferto colpi feroci, profondi e indelebili.
Allora ho sentito in bocca un sapore metallico, acre. E ho capito che se n'era andata quella leggerezza bella, che non avrei più guardato all'altro con trepidazione e fiducia e voglia di scoprirmi.
Ma sì, meglio tardi che mai.

giovedì 31 agosto 2017

Cose difficili, cose belle

Sarei in vacanza. A parte il caldo africano, un posto bello da morire.


La iella ci ha inseguiti in modo piuttosto tenace, così non ci pare d'esser tanto feriali, ma mi consigliano di non riferire la lista delle sfighe, perchè sembra che metterle in evidenza ne calamiti altre. Sia mai.
Dico solo che ieri mattina stavamo al pronto soccorso. Basta arrivare a metà Italia e capisci tutto quel menzionare l'efficienza del nord est. E lo dico con amarezza, perchè questi luoghi mi piacciono e questa gente mi incanta, ed è piuttosto triste che funzioni così. 
Insomma dicevo che eravamo al pronto soccorso e si attendeva in una sala d'aspetto. Avevo in borsa una cosa da leggere, ma non ho avuto modo, in quanto l'umanità presente era talmente variegata e interessante da non lasciar spazio ad altro.
L'attenta analisi delle somiglianze perentali, di alcune note caratteristiche (padre e figlio con baffetto rovazziano, donna mezza età con smalto verde acido coordinato mani e piedi...), dei dialoghi per nulla risevati, ha reso fluido il tempo. Avrei pure pagato il biglietto, se me l'avessero chiesto.
Comunque ad un certo punto arrivano due mussulmani. Lo capisco perchè l'uomo adulto indossa una tunica lunga e il colore della pelle è scuro, ma non tanto. Il ragazzino veste all'europea ed è secco secco con due occhi enormi. Si siedono. Dopo un poco arriva un'infermiera e parla con l'uomo, che però non risponde e guarda il ragazzino, in attesa. Quello traduce tutto, dall'arabo all'italiano e viceversa, con un fare consumato e dignitoso che commuove. Avrà undici o dodici anni.
Nella stanza c'è anche una signora in carrozzina, accompagnata dalla figlia. Da un po' l'anziana chiede di andare in bagno, ma la figlia esausta teme che arrivi il loro turno proprio mentre si allontanano. Poi si decide, e due minuti dopo un medico che pare appena uscito dal bagno 23 di Follonica, le chiama a gran voce.
Il ragazzino, che nell'attesa aveva appoggiato la testa sulle ginocchia del padre, si alza senza che nessuno glielo suggerisca. A passi svelti raggiunge il corridoio, il bagno e avvisa le signore.
Noi, rimasti col culo sulla sedia, ci scambiamo sguardi un poco vergognosi.
Quando il ragazzino riprende posto, le parole mi escono da sole, non posso trattenerle: la mia maestritudine è cronica, non va mai in villeggiatura.
"Sei stato veramente bravo, grazie".
Lui mi guarda di taglio, arrossisce molto e poi con un sorriso fiero si riadagia sulle ginocchia del papà.

sabato 26 agosto 2017

Sono una peccatrice

Il contagio mimetico comporta questo tipo di aggregazione apparentemente spontanea. La folla è unita e sicura che il sacrificio sia giusto e soprattutto utile alla ricomposizione della crisi. Questo perché, una volta contagiati, gli uomini sono letteralmente accecati e perciò incapaci di rendersi conto del male che stanno andando a fare, dell’estrema ingiustizia ed infondatezza della violenza contro il capro espiatorio.
(R. Girard) 
 

Gli infelici si annusano, si tastano, si riconoscono. Chini gli uni sugli altri si spulciano, sgarfano gli angoli acuti della privazione e i vuoti che essa genera. Poi si accostano e mettono assieme tutti i "senza" che portano addosso.
Senza carne, senza domande, senza solfiti, senza buon sesso, senza lieviti, senza risate grasse, senza chiappe, senza alcolici, senza capriole, senza zucchero.
Una volta accorpate, le persone "senza" non si sentono più sole e dipingono le loro dolenti mancanze di giallo, di azzurro, di virtù. Si raccontano che loro sono altro, rispetto al resto e gli par come  - finalmente - di elevarsi. I "senza" allora si fanno "più" e calamitano a sè lustri aggettivi quali onesto, integro, probo, degno di veicolare la verità.
Giunge così l'ora del riscatto: gli infelici diventano fieri portatori di bandiere o paladini di grossi nomi con cui si riempiono la bocca, perchè nessuno sa perorare una causa meglio di chi si è sentito incompreso.
Tutto quel poggiarsi a certezze, riferimenti, monolitici dettami (giudicando pesantemente chi non vi si affilia), suona come la necessità di costruire scatole ermeticamente chiuse, che impediscono di vedere, cogliere differenze, lasciarsi sedurre.
Come dire, alla fine non mangio un Cornetto Algida perchè temo sia troppo buono. O non mi acconcio i capelli perchè ho il terrore di essere guardata, tentata. Scelgo una via retta, perchè priva di possibilità e alternative.
Colpisce poi come i soggetti in questione perdano quindi in modo definitivo la dote salvavita per eccellenza: l'ironia.
Più passa il tempo e più coniugo l'intelligenza viva con la capacità di guardarsi intorno lievi, come di passaggio, prendendosi un poco per il culo.
E scelgo persone che nutrono dubbi, che sposano una sana incoscienza, che mangiano costicine abbrustolite o torte con la panna, che osano guardare fuori dalla scatola. Perchè non hanno paura, perchè non sono infelici, perchè peccano.

domenica 20 agosto 2017

One day

Ci sono giornate che ne valgono due, altre che durano poche ore.
Ieri è stato un giorno matrioska: ne conteneva tanti alti, più piccoli e diversamente colorati.
Alle 8.30 eravamo già sul sentiero. Fresco sulle braccia, capelli sciolti che non serve tirarli su. Falcate lunghe e chiacchiere in principio, poi silenzi e passi brevi man mano che si saliva. Il cane a girarci intorno come fossimo le sue pecore, in nome degli antenati pastori.
In cima faceva quasi freddo e il cielo ha cominciato a brontolare. Però c'era quel cippo che non avevamo mai visto, e ci è toccato sederci un attimo ad onorare l'essere lì, assieme.

Traduzione: non smetrterò mai di amarti, anche se la vita ci ha diviso. Ciao amore mio.

Le nubi si sono addensate in un attimo, come accade in montagna: siamo scesi quasi correndo. Ma niente da fare, due salti e son venute giù secchiate d'acqua, mentre il bosco grondava assieme ai miei capelli. Dall'inizio dell'estate sognavo una pioggia improvvisa, torrenziale, e nessun ricovero. 
Con un sorriso fesso alzavo la testa, aprivo la bocca, mi bevevo le gocce fredde. Fradici siamo arrivati giù, lui si è voltato e ha detto "la mia miss maglietta bagnata", che in quella prosa c'era tanta lirica da riderci in due.
Poi svelti a casa, pane e salame al volo, perchè il frigo era vuoto e dovevamo assolutamente fare una spesa. Doccia, cambio e via di nuovo in macchina.
Vuoi la corsa che mi aveva fiaccata un poco, o l'ebbrezza. Fattostà che pioveva ancora, e uscendo dall'alimentari al volo, per mettere in salvo il pane, ho aperto la portiera dell'auto con una certa foga. E niente, me la sono sbattuta in faccia, precisamente fra il naso e la bocca. Al di là di un dolore atroce, che mi ha fatto nascondere dietro le mani e singhiozzare come una bambina, è stato lo smacco a far tanto male. Quel sentirsi imbranati, avulsi, goffi.
Come miss maglietta bagnata ho ancora parecchia strada da fare.


giovedì 17 agosto 2017

Poesia e prosa

ore 7
Mi sono iscritta ad un master, da tanto tempo ce l'avevo lì. Costa un botto e questo mi frenava, ma a casa abbiamo deciso che era giunto il momento. Il dentista può aspettare ancora un po'.
Studiare mi piace da matti, tutto quel sottolineare compulsivamente trovando ovunque assonanze e richiami, tutto quel piazzare post-it e metter giù schemi, mappe, riassunti. E le frecce? Cosa vogliamo dire delle frecce? Lunghe, corte, curve, che rimandano alla pagina tale, al tal concetto, all'esempio perfetto. Qua e là vergo anche un punto esclamatico, una piccola nota. Le mie dispense sono carte che mostrano la geografia di come imparo, che indicano le strade tracciate per comprendere.
Trascrivo le parti che mi suonano dentro, che illuminano qualcosa che prima stava al buio, che danno parole ad un pensiero che avevo in bozze. Sono appunti che restano per sempre.
Ho da sempre una memoria visiva eccezionale, mi basta leggere un paio di volte e porto dentro i concetti chiave, le definzioni, perfino qualche data e nome.
Ovviamente se le cose che studio mi piacciono è tutto più semplice, la memoria selettiva funziona così. Dovessi leggere di economia o fisica teorica sarebbe un'altra musica.
E insomma alle 7 piazzo tutti i miei strumenti sul tavolo da cucina e inizio un lavoro poco metodico (mi siedo, studio, poi sento l'esigenza di un caffè, mi risiedo, studio, verso il caffè, studio, silenzio il cellulare, accarezzo il cane, studio, mando un messaggio, studio...) ma per il mio personale bilancio energetico, molto efficace.
Vien solo da chiedersi se servirà. Nel senso che serve a prescindere, perchè credo fortemente nel nuovo che scombina un po' le certezze e le riassesta, che obbliga a cambiare assetto, sguardo, postura. Quindi senza dubbio insinuerà dubbi che vorranno risposte che implicheranno ricerca, e alla fine l'evoluzione è tutta lì. 
Ecco, però oltre a riempirmi di quesiti svotandomi le tasche, mi piacerebbe proprio che servisse nella pratica, facendomi salire uno scalino nella prosaica evoluzione dell'homo laborans. Che ai bei concetti e alle belle persone occorre pure materialistico riscontro.

lunedì 14 agosto 2017

Com'è andata


Sono sempre stata attratta da ragazzi inadeguati, inaffidabili e asociali. Accompagnarmi a soggetti alternativi, fuori dalle righe, mi pareva il gesto più estremo di protesta, lo schiaffo meglio assestato alle speranze che i miei genitori (più o meno consapevolmente) riponevano in me.
Così se fuori di scuola tutte le mie compagne dispensavano frivoli sorrisi ai portatori di grosse cilindrate e maglioncini dallo scollo a V, io chiedevo "hai da accendere?" al tipo biondo e parecchio rasta seduto in una vecchia 850. 
Spesso i soggetti in questione esprimevano il loro disagio esistenziale con gesti variamente forti e provocatori, come passare col semaforo rosso, dedicarsi alla street art notturna o bucarsi l'orecchio con un ago da calza. Il più centrato è finito negli Stati Uniti ed esercita la body painting.
Ho incominciato prestissimo, ma mi fidanzavo per modo di dire. Nel senso che loro anelavano ad una musa spregiudicata stile Courtney Love, e io sì e no mi facevo baciare. Quell'inconsistenza ribelle piaceva alla me sovversiva, ma non rassicurava la bambina complessa che ero, piena di inquietudini e ferite.
Così finivano per stancarsi della maestria con cui scansavo i loro vigorosi brancicamenti e veleggiavano altrove. Ma poco m'importava.
In un tiepido giugno, un punkettone con le braghe rosa zeppe di spilloni da balia e scritte anarchiche mi corteggiò goffamente. Disse una sera, per allentare la tensione: Cara-mella, manda-rino è morta-della. Consegnargli cuore, attese e affanni, mi parve la cosa più giusta del mondo.
A volte lo racconto a Edoardo e Jacopo, di com'è andata fra mamma e papà. Li diverte moltissimo.

mercoledì 9 agosto 2017

Tante estati


Agosto mi porta le estati passate. Sarà per la sua forma lunghissima e perlacea,  per il languore di lenzuola e penombre, o per il suo odore dolce di mele disfatte.
Indugio ad agosto, attendo le cose tornare con la risacca.
L'estate in cui precaria sulla bici del nonno vado con la Alessia a comprare il pane in capo al mondo, perchè dietro il banco ci sono due fratelli, belli da morire, che ci chiamano "ragazze". Appena fuori ci sediamo sotto l'albero a sbocconcellare il pane fresco, e immaginiamo il giorno in cui li sposeremo e diventeremo nuore. Ma no, si dice cognate.
Torna quella brada, in due sul Ciao rosso del Paolo, che siamo troppo piccoli per dare un senso a quella prossimità piena di segreti. Allora lui dice "fai la radio!" e io urlo a squarciagola Johnny, we're sorry, won't you come on home.
L'estate a passeggio sul lungomare di Paestum, i sandali intrecciati, aria densa di sugo rosso e salso. Così tante luci e suoni e facce da aver paura di perdere i bambini. Stringo le loro mani troppo forte, mentre il cuore fa il balordo e io lo metto in castigo dietro la lavagna.
E poi l'estate del guardaroba regalato in blocco, che tutto mi balla addosso, le ossa del bacino pungono se dormo a pancia in giù. Una sigaretta via l'altra nel francobollo della terrazza in città, che son le tre di notte e non c'è nessuno da poter chiamare.
In questo agosto di fiume e ciottoli, archivio ricordi che sanno di asfalto bagnato e cocomero.

domenica 6 agosto 2017

Agosto di commissioni e incombenze


Porto la bestiola al controllo veterinario, col caldo aveva manifestato qualche problema intestinale. 
Nella sala d'aspetto schifa gli altri cani presenti, non si lascia annusare le terga, come fan tutti. Si ripara fra le mie gambe se un suo simile prova ad accorciare quella che lei ritiene una sana distanza di sicurezza. Nei confronti degli umani invece, è tutta un languore seduttivo. Scodinzola, annusa, uggiola, manca solo che sorrida e faccia commenti di circostanza. Che  ne so, sembra lì lì per dire scuotendo la testa: "è l'umidità a fare la differenza, cara signora".
La dottoressa mi chiede se mangia, se beve. Rispondo che sì, mangia e beve, ma solo se staziono nei pressi, altrimenti fa anche a meno. Mi tocca intimarle "dai Olli, bevi", allora beve.
"Questa non l'avevo mai sentita", dice ridendo la dottoressa mentre la ausculta.
Seduta sotto alcune foto di gattini e conigli nani, mi vien su un pensiero.
"Scusi eh. Non è che Olli crede di essere umana, vero?" 


Vado in Posta per ritirare un pacco e trovo un impiegato che non ho mai visto. Qui l'ufficio postale ha tre sportelli, una manciata di dipendenti e un direttore che tutto sovrintende aggirandosi con aria torva nelle retrovie. Magari qualcuno è in ferie e il mio uomo fa supplenza.
Nonostante sia piuttosto giovane, porta occhiali spessi dalla montatura dorata e sfoggia una polo di filo a righine. E' evidente che da qualche parte sono ancora legali.
Gli consegno il cedolino per il ritiro, già inserito nel documento. Lui, senza mai guardarmi in faccia, esegue una sorta di rituale: apre e chiude il mio documento più volte, legge e rilegge il cedolino, lo compara a non so quali dati che evince dalla schermata del pc, si alza e apre un armadio, sembra cercare, poi si risiede e torna al cedolino, al documento, al pc. Per tutto il tempo mormora cose incomprensibili e lancia sguardi in tralice alle mie tette. Mi controllo e mi accollo, anche se scollata non sono, che non vorrei distrarlo.
Fra le ante di un armadio socchiuso che ha appena esaminato mi pare di riconoscere il mio pacchetto.
"Secondo me è lì", dico indicando timidamente, ma lui bofonchia qualcosa rivolto alle tette, prima di rivalutare il cedolino e riprendere la sua penosa ricerca sul retro.
L'impiegata che conosco e sta nello sportello a fianco decide di mettere fine allo strazio e si avvicina.
"Qual è?", mi chiede. 
"Quello con la scritta verde", dico io.
Urla trovato! e si allontana alzando un poco le sopracciglia.
Lui torna, recita alcune giaculatorie e mi allunga almeno otto carte da firmare prima di porgermi il pacchetto. E il breve saluto che formula, a denti stretti, non è rivolto a me.

giovedì 3 agosto 2017

Sbagli


Mi ci è voluto un attimo per incassare il colpo. Non troppo a dire il vero.
Pensa che tu abbia fatto solo scelte sbagliate. Ecco, sentirselo dire (a prescindere da chi sta pronunciando la frase e dal peso che si può dare al soggetto citato) causa un vago capogiro. Transitorio però, perchè nel giro di qualche minuto, mi è salito l'incazzo.
Mi piacerebbe che questa persona, invece di pensare alle mie scelte, ponesse l'attenzione su di sè. Non certo perchè mi permetto di giudicare le altrui vite, io me ne guardo bene, bensì per riportare quello sguardo critico sulla sua, di esistenza. Come consiglio spassionato.
Che per dire, a me fa sempre un gran bene passare al setaccio azioni e parole, quelle che eseguo e pronuncio. Le osservo un po', mi chiedo se corrispondono al vero. Ecco, se il mio fare e il mio dire sono lo specchio di quello che davvero sento o penso, se non sono viziati da secondi fini, paure, irretimenti, parallele intenzioni, allora dormo sonni tranquilli. Altrimenti mi bastono. Perchè mi capita di non essere proprio vera, di agire dominata da qualcosa che magari non so vedere.
Mi piacerebbe suggerire, a colui che pensa, l'uso quotidiano del setaccio. Se vuole, ne ho due o tre di riserva, sia mai che resti senza.
Fa da sorridere fra l'altro pensare che a forza di sbagli sono questa qui. Che non sniffo la colla, non dormo sotto un cartone, non la dò via al primo che passa.
Le scelte sbagliate alle quali ci si riferisce sono comunque essenzialmente due (abbandonare un sicuro impiego statale e divorziare), che per osmosi hanno ammantato di sbaglio tutto il resto.
Non perdo tempo spiegare, a chi si arroga il diritto di opinare, che uno sbaglio implica una scelta e che non sempre ci è data tale opportunità. Inoltre, se nel ventaglio delle scelte si annovera quella dello struzzo io me ne dolgo, ma trovo scabroso vivere nell'irrisolto.
Non perdo tempo a raccontare, a chi non sa vedere, dei tanti segni e di nessun rimpianto.

sabato 29 luglio 2017

Un buon tacer



Mi fanno male il collo, le spalle, sto parecchio rigida in questi giorni. Torniamo dalla spesa un po' stanchi, fuori ci sono 30 gradi. Scarichiamo tutto, sistemiamo la roba in frigo, ancora con le scarpe addosso. Mi pulsa la testa. Decidiamo di aprire una bottiglia che stava in fresco, vado in bagno a lavarmi le mani prima di mettermi ai fornelli.
"Vuoi un massaggio per quelle spalle?", lo sento dire dalla cucina, mentre mi cambio. 
Lo voglio eccome.
Cerca la pomata altoatesina, quella che resuscita i morti e mi aspetta sul divano.
Lo raggiungo corrucciata, scalza, coi capelli malamente raccolti. Lui mi guarda tutta.
"Ce biele che tu sês", dice in un fiato.
Che ogni tanto, per le cose di pancia, gli viene su il friulano. Sì, gli sembro bella proprio.
Mi scapperebbe il siparietto. Ma come bella, che son tutta malconcia e dolente e repulsiva?
Invece saggiamente taccio, e me la godo.

La vita è così, stupisce

La vita è così, stupisce

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