sabato 28 aprile 2018

Mi lumacizzo (o lumachizzo?)


L'altro giorno una bambina mi ha domandato cosa vuol dire "campanile". Come quella volta in cui si parlava del circo e due alunni di prima hanno chiesto lumi. Non avevano idea di cosa fosse.
Ho creduto di aver sentito male, quindi le ho chiesto di riformulare la domanda.
"Non so cosa vuol dire la parola campanile, maestra".
Circo, campanile. Mi son chiesta cos'avessero in comune queste due parole. 

Mi è capitato spesso di cercare di orientarmi per raggiungere il cuore di qualche paesino e in mancanza del navigatore ho sempre cercato di adocchiare il campanile, la chiesa. Lì era il centro nevralgico, lì era la piazza, il municipio, la posta, il bar, la scuola.
Ma non è più così. I bambini non giocano nella piazza, le rondini non volteggiano nel loggiato della chiesa e il suono delle campane non annuncia i vespri e l'approssimarsi dell'ora di cena. I palazzi in città occultano ogni cosa e l'orizzonte è invisibile.
La mia eroina Heidi, arrivata a Francoforte, cerca un posto in alto per vedere tutto attorno. Allora il bambino che suona l'organetto, la porta proprio sotto il campanile del duomo e lei corre su. Per dirne una sui campanili.
Nello stesso modo, i circhi grandi e piccoli che popolavano le periferie polverose d'estate e rappresentavano per i bambini - insieme alle giostre - una rara occasione di svago (al di là delle questioni animaliste), ora  sono quasi scomparsi. Hanno poco grip: tempi lenti, niente effetti speciali, odore pungente, poltroncine di plastica.
Capisco tutto, non mi oppongo al naturale evolversi delle cose, trovo normale che un multisala risulti più accattivante di un circo. Eppure mi spiace, mi sembra che i piaceri nuovi, pronti a sostituire i vecchi, ci trovino comunque più passivi e inermi. Meno lieti.

Scompaioni i circhi, si dimenticano i campanili e le persone si annusano su Tinder. Che non capisci neanche se uno sa di buono. Ma ne riparlerò, perchè devo ancora chiarirmi alcune cose.
E' solo che mi viene da ritirarmi sempre di più nella mia chiocciola e poi Francesco si arrabbia.

mercoledì 25 aprile 2018

Ridere





Sono seduta sotto un ombrellone in Slovenia, bevo una birra e tengo d'occhio due vecchini. In fondo al prato hanno allestito un tavolo da picnic. Da questa distanza capisco poco, ma il poco mi basta a immaginare. 

Me li figuro avanti con l'età (lei è tutta bianca, parecchio china e si appoggia al bastone), ma abbastanza sani e vigili da regalarsi una domenica così, loro due da soli. Lui si muove molto attorno al tavolo, le porge cose, poi le si siede di fronte e un po' resta.
Penso che non abbiano figli o nipoti. Non so perchè. 
Penso pure che non siano italiani e mi vedo la loro casa di sassi, con l'orto e i fiori di campo disordinati nelle aiuole del giardino, come usa qui.
Poi si alzano per andare: lui raccoglie tutto, riempiendo un paio di borse; lei gli indica qua e là gli oggetti. Uno dietro l'altro attraversano il prato lentamente, nella nostra direzione.
Man mano che si avvicinano - e ci mettono cinque minuti almeno - la mia storia si aggiusta, si compone, perde alcuni colori e si tinge di altri. Si modifica una decina di volte, nello spazio di quel prato.
Si siedono accanto a noi e ordinano un caffè: sono molto italiani. Lei da vicino mi piace da matti. Dietro i grandi occhiali spessi muove le pupille nere a spillo, curiose. Indossa una camicetta bianca con il colletto di pizzo e una gonna nera al polpaccio. E' piuttosto rotonda. Ma è nella voce giovane, carezzevole e lieta, che si dice tutta. Una voce da maestra.
Ad un certo punto lui le mostra un depliant con i prezzi del piccolo albergo lì accanto.
"Te ga visto? Costa solo venti euro a notte", le dice.
Lei legge tutto per bene, sorseggiando il caffè.
Poi replica, con aria vispa e ironica: "e cossa femo qua mi e ti, tutto il giorno?".
Lui ride di gusto e se la ammira con tenerezza.
"Se guardemo nei oci", ha detto.
Ci guardiamo negli occhi.
E allora hanno riso assieme.


lunedì 16 aprile 2018

Domenica


E' domenica, suonano le campane. Mi cambio in camera, la porta che dà sulla terrazza è socchiusa, entrano odori (sì sono tornati, assieme al cinguettare degli uccelli al mattino): terra, vento, erba.
Mi sfilo la maglietta davanti allo specchio, mi guardo. E lì resto, le braccia lungo i fianchi, i capelli sciolti sulle spalle.

Quante volte nel tempo ho sentito suonare le campane della domenica? E dov'ero, cosa facevo, in quale giorno si infilavano il mio corpo e i miei pensieri?
Le domeniche con le calze bianche e le scarpe di vernice sotto il banco della chiesa, piedi e occhi inquieti, mai paghi. O quelle con il telo da mare e la nivea blu nello zaino in spalla, via di corsa che l'autobus scappa. Le gambe da donna, che si credono bambine vanno via scomposte.
Le domeniche in cui la mamma grida alzati, è mezzogiorno e l'unica preoccupazione è nascondere la minigonna prima di uscire, vestita a modo. Poi cambiarsi e truccarsi nel sottoscala.
E quelle su e giù dai treni, le lasagne e il sugo di pomodoro in valigia, le pagine di Siddharta piene di appunti.
Certe domeniche gonfie di sonno, che i bambini saltano sul letto. Fuori piove un'acqua brumosa e da qualche parte, qualcuno, ha fatto il caffè.
E poi questa domenica di rondini. Io mi preparo per la gita (ma quanto mi piace vagare?) mentre tu canti in cucina un pezzo degli U2.  I’ve been thinking about the West Coast...

E' una domenica di tante, eppure è una sola e diversa fra tutte, perchè sfioro la mia pelle di latte, e carezzo una bambina, una ragazza, una donna. Che mai mi ero voluta così.

giovedì 12 aprile 2018

Non li vogliamo


Stiamo spegnendo i bambini. Impediamo loro di esserci, vedere, sentire, avere domande.
Qualche sera fa, al ristorante. Dietro di noi due fratellini pigiano compulsivamente i tasti di una specie di pianola, producendo suoni stridenti. Pigiano a caso, ma la pianola attacca sempre quei due o tre pezzi di allucinante bruttezza. E una volta, e due, e dieci.
Ci voltiamo, come a far capire che gradiremmo cenare in pace, ma nessuno vuol far caso. 
Quasi in sincro, nel tavolo a fianco piazzano due ragazzini appena più grandi davanti al tablet, con un film di animazione. Ovviamente, niente cuffie in dotazione.
Ecco, al di là del fastidio, resta un sapore sgradevole in bocca. Resta l'impressione che non li si voglia sentire, con la scusa ufficiale che "si annoiano", e che "non possono stare seduti così a lungo".
I miei genitori sessantottini frequentavano una nutrita compagnia e si gozzovigliava spesso. Ho un bellissimo ricordo di quelle serate - in cui ero l'unica bambina - e del piacere che provavo ad osservare, capire e cogliere il senso delle battute, dei discorsi. Mi divertivo un mondo.
Il mio immaginario ha messo le prime timide radici in quelle storie di viaggi, amori, ricette, letture. Si sposavano, partivano, pubblicavano scritti, teorizzavano postulati. Ma anche si ubriacavano, cantavano e a volte dormivano in auto.
Pure i miei figli han sempre goduto delle occasioni conviviali, al ristorante o a casa di amici. Hanno fatto domande, riso di gusto, partecipato alle chiacchiere. Che poi, con quattro pennarelli si può disegnare sulla tovaglietta di carta e un gioco di carte fa passare il tempo, nell'attesa delle patatine. Senza isolarsi, senza perdersi.
Ecco, questi genitori del ristorante tra qualche anno andranno dallo psicologo. Cercheranno di capire perchè i loro figli adolescenti hanno tagliato con il resto del mondo, perchè non parlano e non ascoltano. Si dispereranno per quella teste chine, quelle dita febbrili e gli infiniti silenzi.

martedì 10 aprile 2018

Regali



Da quando l'avevo sognata, attendevo il momento giusto.
Perchè uno non valeva l'altro. Dovevo essere arrivata, là dove lei mi aveva mostrato.
E niente, son tanto contenta.

sabato 7 aprile 2018

Posseggo



Posseggo poco, quel che bisogna
ma nel mio regno si ride e si sogna.
Di tre cuscini sono padrona
fantasia floreale, in cima alla poltrona:
legifero che restino nella di me attesa
forma di culla, nicchia sospesa.
Mi proclamo ammiraglio della tazza celeste
nel tè al bergamotto affondo un biscotto.
Sorseggio, e decreto con voce tonante
"mia cara zolletta, squagliati all'istante!".
Il capo io sono di orecchini pendenti
calzini spaiati e fermagli lucenti:
li cambio di posto a mio piacimento
li accoppio, mi addobbo
maestosa mi sento.
Poi esco, vestita di niente.
Comando a bacchetta dei piedi le dita,
le piante, i talloni, la caviglia ardita.
E quando obbedienti si muovono a tempo
quando oscillo e danzo
esilio le scarpe:
il mio, è un esercito scalzo.
Quel che bisogna posseggo, ed è poco
ma non mi si rubi un pendente, un biscotto,
un minuto, un cuscino
una danza, un silenzio
o un solo calzino.


lunedì 2 aprile 2018

E' che

E' che sono stata qui:





  
 

 


Ed è che quando ero là, avevo addosso una forza, un'energia, uno spirito bello e curioso e allegro, anche se dormivo meno di niente. Anche se c'era il vento. 
Non ero mai stanca: neanche uno sbadiglio, un mal di testa, un pensiero bigio, un'uggia.
Sul volo di ritorno avevo appuntato mille cose da raccontare - mari, persone, cannoli, salsedini - e adesso "puf", nessuna parola mi pare abbastanza giusta.
Devo riprendermi, tornare quaggiù.

La vita è così, stupisce

La vita è così, stupisce

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