Circa otto anni fa ho frequentato un corso di inglese per sfigati. Nel senso che da una parte era organizzato con i fondi europei a costo zero (e forse per questo la docente non si distingueva per capacità e brillantezza), dall'altra i corsisti erano tutti ugualmente e tristemente mal messi: livello yes, no, what time is it. Pronunciati da cani.
Attraversavo la seconda fase del declino del mio matrimonio, quella in cui cercavo disperatamente di gettare nel dimenticatoio la tripletta amo un'altra e nel contempo mi raccontavo che ci stavamo provando. A salvare tutto. A non deludere nessuno. A far tornare ogni cosa come prima.
Ma dentro, alla bocca dello stomaco, c'era un'altra bocca più aperta, più sghemba, più tremante, che urlava dal suono della sveglia al clic dell'abatjour sul comodino. Perchè l'avevo capito anch'io, che da tempo eravamo solo due premurosi fratelli, che lui aveva ragione da vendere.
Uscivo lieve, indossando orecchini coloratissimi e scarpe rosse. Verdi. Bluette.
Le lezioni iniziavano subito dopo cena e la fauna umana era variegatissima, divertente. Ragazzi appena diplomati, due sposini, una docente in pensione, due casalinghe, una barista, un attempato manager, due finanzieri dall'occhio languido.
E proprio il finanziere una sera arrivò in ritardo e prese posto nel mio banco, a fianco a me. Mi guardò, alzò gli occhi al cielo sorridendo come a dire caspita, che figuraccia.
Dai tempi del liceo non stavo così vicino ad un uomo che non fosse il padre dei miei figli. Ricordo perfettamente il suo odore buono, un misto fra detersivo e dopobarba, che mi ammorbidiva, mi confondeva e mi spaventava a morte. Non potevo fare a meno di guardare (con un misto di vertigine e sgomento) il braccio abbronzato, il braccialetto nero di caucciù, le dita nervose che spostavano i fogli e giravano le pagine.
Da quella lezione, e fino alla canonica pizza conclusiva, giocammo al gatto a al topo. Mi cercava quando arrivava, mi portava il caffè durante la pausa, mi accompagnava alla macchina a fine lezione. E io evitavo, ma non sapevo evitare, dribblavo, scantonavo, ma poi con gli occhi dicevo "son qui".
Tornavo a casa brilla, accesa, guidando sorridevo.
Quando l'insegnante, all'ultima lezione, distribuì il foglio con i contatti di tutti i corsisti, ero certa che mi avrebbe cercata. E mi cercò.Ma non gli risposi mai, avevo ancora diversi pezzi di me da colorare, prima di essere pronta.
I denti, le spalle, i piedi, le labbra. Le unghie. Di rosso, verde, di bluette.