giovedì 31 maggio 2018

Collage

Circa otto anni fa ho frequentato un corso di inglese per sfigati. Nel senso che da una parte era organizzato con i fondi europei a costo zero (e forse per questo la docente non si distingueva per capacità e brillantezza), dall'altra i corsisti erano tutti ugualmente e tristemente mal messi: livello yes, no, what time is it. Pronunciati da cani.
Attraversavo la seconda fase del declino del mio matrimonio, quella in cui cercavo disperatamente di gettare nel dimenticatoio la tripletta amo un'altra e nel contempo mi raccontavo che ci stavamo provando. A salvare tutto. A non deludere nessuno. A far tornare ogni cosa come prima. 
Ma dentro, alla bocca dello stomaco, c'era un'altra bocca più aperta, più sghemba, più tremante, che urlava dal suono della sveglia al clic dell'abatjour sul comodino. Perchè l'avevo capito anch'io, che da tempo eravamo solo due premurosi fratelli, che lui aveva ragione da vendere.

 
In quella seconda dolorosa fase però, un pezzo alla volta il mio corpo si dipingeva: rosa le gambe snelle, dorati i capelli arruffati, celesti gli occhi allungati. Mi guardavo, mi scoprivo, imparavo a mostrare senza esibire, portavo giù in cantina scatoloni di vestiti informi, pantaloni maschili, gonne al polpaccio, camicette di flanella, scarponcini stringati.
Uscivo lieve, indossando orecchini coloratissimi e scarpe rosse. Verdi. Bluette.


Le lezioni iniziavano subito dopo cena e la fauna umana era variegatissima, divertente. Ragazzi appena diplomati, due sposini, una docente in pensione, due casalinghe, una barista, un attempato manager, due finanzieri dall'occhio languido. 
E proprio il finanziere una sera arrivò in ritardo e prese posto nel mio banco, a fianco a me. Mi guardò, alzò gli occhi al cielo sorridendo come a dire caspita, che figuraccia
Dai tempi del liceo non stavo così vicino ad un uomo che non fosse il padre dei miei figli. Ricordo perfettamente il suo odore buono, un misto fra detersivo e dopobarba, che mi ammorbidiva, mi confondeva e mi spaventava a morte. Non potevo fare a meno di guardare (con un misto di vertigine e sgomento) il braccio abbronzato, il braccialetto nero di caucciù, le dita nervose che spostavano i fogli e giravano le pagine.
Da quella lezione, e fino alla canonica pizza conclusiva, giocammo al gatto a al topo. Mi cercava quando arrivava, mi portava il caffè durante la pausa, mi accompagnava alla macchina a fine lezione. E io evitavo, ma non sapevo evitare, dribblavo, scantonavo, ma poi con gli occhi dicevo "son qui".
Tornavo a casa brilla, accesa, guidando sorridevo.
Quando l'insegnante, all'ultima lezione, distribuì il foglio con i contatti di tutti i corsisti, ero certa che mi avrebbe cercata. E mi cercò.
Ma non gli risposi mai, avevo ancora diversi pezzi di me da colorare, prima di essere pronta.
I denti, le spalle, i piedi, le labbra. Le unghie. Di rosso, verde, di bluette.




giovedì 24 maggio 2018

Nervosetta


A fine maggio le curve della mia intolleranza (generalizzata, non specifica) si allargano e si acutizzano. Al fine di preservare i bimbi e con la ferma intenzione di non mollare quel che resta della mia maestranza, divento fastidiosa col resto del mondo.
Sostengo che la gente mi risponde male.
Rispondo male alla gente.
Mi irrito con le persone che viaggiano a corrente alternata/umorali.
Viaggio a corrente alternata e sono decisamente umorale.
Dico agli altri che non devono leggere tra le righe, quando parlo.
Leggo tra le righe quando gli altri parlano.
In questo stato di perfetto disequilibrio faccio quello che non si dovrebbe mai fare sotto stress: metto giù bilanci, tiro conclusioni, estrapolo dettami e precetti da episodi (spesso) irrilevanti.
In buona sostanza però, screma che ti screma, due tavolette della legge, senza nessuna pretesa di universalità, le vorrei incidere.
1) non fare troppo la sborona e la prima donna: stai nell'ombra, che poi se ti metti nel cono di luce è un niente che ti chiamano in causa random (hai voluto la bicicletta? e adesso pedala). Come quando alle elementari tutti schimazzavano ma la maestra Anita sgridava sempre te perchè "ti si nota di più";
2) impara a chiudere qualche scomparto, una o due porte, un cancelletto. Non sempre gli altri sanno fermarsi sulla soglia, se tu non avvicini (con grazia) l'uscio;
3) spalanca il cuore a chi si prende in giro, a chi ironizza sulla sua natura imperfetta: solo chi conosce le sue debolezze accoglie quelle altrui;
4) ricordati di comperare la cioccolata bianca, che ti fa tanto bene.

sabato 19 maggio 2018

Farsi attraversare


Grazie a Nuvola mi sono ricordata che da piccolissima, intorno ai quattro o cinque anni, disegnavo compulsivamente. Mi piacevano le figure umane, ça va sans dire. 
I miei soggetti avevano molti dettagli, tanti colori accesi e curiosamente indossavano diversi cappelli uno sopra l'altro. Ma non due o tre, pile lunghe una decina di copricapi. Così nello stesso foglio andavano a spasso Tizio e Caio, ognuno con il suo bel metro di roba in equilibrio sulla testa.
E poi mi chiedo perchè sono quella che sono. 
Perchè mi incanto, al banco della frutta, a guardare le scarpe di vernice col tacco altissimo di una donna che pare una caricatura. E mi chiedo com'è la sua casa, se ama un uomo bello, se ha un'auto rossa e se la sua mamma è ancora viva.
Perchè, ferma in auto dietro lo scuolabus, mentre piove a catinelle, mi perdo dietro questo bambino secco secco che scende e apre goffo l'ombrello e immagino il piatto di pastasciutta che lo attende, la tovaglia a quadri, un cane meticcio che fa le feste.
Le espressioni degli altri, il dolore in un gesto, le esistenze a metà, i sogni altrui, mi hanno sempre attraversata da parte a parte, anche quando non volevo. 
Li ho tutti quei cappelli in testa, incastrati uno dentro l'altro, un metro di cose in equilibrio su di me.

domenica 13 maggio 2018

Quasi estate

          
Il mio ombrellone, la tipologia di spiaggia che mi va a genio

 (Grecia)
Stamattina, scendendo le scale per andare al lavoro, mi sono ricordata che con la benzina ero in rosso. Quindi tutto di corsa, tanto per cambiare.
Così ho pensato a quando, nei giorni in cui la mia famiglia andava in mille pezzi, viaggiavo come ubriaca con cinque euro nel taccuino, l'auto a secco, gli occhi pesti e il telefono senza credito. 
Magra da far paura, che bastava un niente a portarmi via.
Una sera di maggio, alcuni amici della scuola mi hanno stanata a forza. Mi sentivo brutta, vuota, ascoltavo la mia voce come da fuori, dire e ripetere quelle quattro cose rassicuranti in merito alla mia condizione.
Pian pianino mi risolleverò. Ci vuole solo tempo.
Edo e Jacopo sembrano sereni, per ora.
Faccio fatica ad alzarmi al mattino, ma saranno i farmaci.
Poi, mentre si mangiava, gli altri - tutti accoppiati, più o meno felicemente - hanno cominciato a parlare di vacanze. Grecia, Sardegna, il campeggio, Parigi, la casa dei nonni a Grado. Risate sui bagagli femminili che i consorti si rifiutano regolarmente di caricare in macchina.
E io, che mi sentivo morire ad ogni risveglio, che non sapevo più fare la spesa e mettere assieme un pasto decente per i miei figli, ho realizzato che sarebbe stata la mia prima estate esposta e nuda. Fuori dal pacchetto formato famiglia con dentro le palette, il canotto giallo, il sandalo col tacco che si butta in valigia perchè non si sa mai e le caramelle gommose per il viaggio.
Ho realizzato che io, senza un noi, non valevo niente. 

Adesso so che non è così. Tante e tante cose sono accadute, tante pelli ho cambiato e altrettante mi hanno fatto da nuovo involucro. Ho imparato a distingure fra paure e bisogni, ho finalmente capito che non devono essere le prime a determinarmi, ma i secondi a mostrarmi la strada.
E l'estate che arriva senza palette e secchielli, ma con un paio di Converse abbandonate nell'atrio, una playlist nuova da ascoltare (mamma, l'hai sentita questa che bella?) e il mio immancabile olio abbronzante al cocco, mi sembra carica di fantastiche promesse.

La vita è così, stupisce

La vita è così, stupisce

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