mercoledì 28 ottobre 2015

Intorno

È che ovunque ti volti ci sono storie da raccontare. Te lo chiedono, lo pretendono proprio, che tu dia loro spazio. Ma io non ho mai tempo, e restano lì a boccheggiare come pesci muti.
Per esempio.

A colazione ho mangiato pane e burro. Mentre lasciavo traccia dei miei incisivi sulla gialla superficie profumata, pensavo a quella donna bionda e minuta che in cima a tutto sta, con le sue vacche grasse e la ricotta al fumo. Ora deve scendere a valle, e dice amara è finita la vacanza. Come se mungere alle cinque del mattino, pulire la stalla, far su il fieno, avesse un sapore feriale.
Sarà per questo che il burro comprato lassù, nella carta oleata, mi procura un piacere tutto fisico, da chiudere gli occhi.



Domenica in Slovenia abbiamo infilato una vecchia strada, forse cosacca. Il sentiero andava regolare e dolce, un tornante via l'altro. Giù di sotto l'Isonzo celeste, l'auto piccina, gli aceri gialli.
Cammina cammina ci si è parato di fronte un cancello basso, di legno, a tagliare il sentiero. L'abbiamo aperto, siamo passati oltre. Al di là, ogni cosa pareva chinarsi disciplinata e docile ad una mano amorevole, ma inflessibile. Fronde curate, il serpente regolare delle foglie rosse rastrellate, i piccoli covoni tondi d'erba secca, la legna affastellata per lunghezza, diametro, spessore.
Una traccia invitava a calarsi appena, attraverso il prato e l'abbiamo seguita. Un ruscello, un ciliegio possente e scuro, poche arnie colorate. Piccoli fruscii, schiocchi: si avanzava cauti, pieni di rispetto. Ed ecco più sotto la casina: storta, minuscola, ma così forte e primitiva che pareva aver radici.
Dove si nascondeva la maga, la guaritrice, quella Baba Jaga che ovunque aveva lasciato segni e tracce e tocchi? Da dove ci stava osservando?
Silenziosi, leggeri, abbiamo detto cose con le mani, gli occhi, con il sorriso. Che bel posto, non vorrei andar più via. Neanch'io. La senti quest'aria fine e dolce? Stiamo ancora un po'. Sì, ancora un po'.



Ieri sono finalmente andata a Trieste, per vedere la nonna.
La casa di riposo, per quanto possibile, mi è parsa un luogo umano, ricco.
Ma lo stesso Amelia lì dentro è spaventata, piccola. Lei, che non aveva paura di nulla. Abbiamo provato a far finta che tutto fosse come prima.
La mamma mi preoccupa di più, ha gli occhi tristi. Troppo pesante il carico di questa scelta, troppo duro da portare così, tutta sola.
Seduta accanto alla nonna, ho visto mondi di storie passare. E ogni volta provavo ad immaginare a quale passo avessero attraversato il mondo quelle anime bianche, che di colore erano state.

lunedì 19 ottobre 2015

Il coraggio della gioia


Nell'età delle commozioni il cuore non basta a reggere la spinta del sangue.
(Erri De Luca)

Sono stata in questo posto gialloarancione, e non volevo più tornare.
C'era una casina sulla piana, e lì sarei rimasta, col fuoco acceso. Chi vuole un piatto di minestra calda, un dolce sonno, una sigaretta condivisa nel portico, lì mi raggiunga.
Sono cresciuta, non so proprio dove sia finita la maestra magra magra, sfuggente, ferita dalla luce. 
Ma ci sono momenti in cui le cose del mondo mi paiono ancora troppo acute, mordaci. In cui amare (nel senso suo più ampio) mi rende così meravigliosamente morbida e così paurosamente esposta da farmi pensare che forse dovevo esser monaca. E magari bestemmio, ma amare un Cristo in croce sa di fuga, resa, sa di paura. Piange quel Cristo, grida? Racconta, esce di casa (tornerà?), spezza il pane e te lo porge? Ride, ti tocca le cosce, respira fiato caldo sul tuo seno?
Troppo facile. Ci vuole fegato, per darsi alla vita.

giovedì 15 ottobre 2015

Chi sei?


"Ma alla fine, tu, sapresti dire cosa davvero ti appartiene?"
Me lo chiedeva tempo fa una persona cara.
Si riferiva al fatto che per diverse stagioni della mia vita ho fatto le "cose che andavano fatte". Da brava. Ossia, mi sono infilata negli abiti giusti, quelli che pensavo si addicessero al ruolo. Se fai la brava mamma indossi maglie accollate. Discorri di pannolini e latte in polvere. Prepari biscotti con lo zucchero di canna. La domenica vai a pranzo dalla suocera che prepara le lasagne.
Quegli abiti erano della misura sbagliata, ma lo so adesso.
Insomma questa amica mi chiedeva se spogliandomi avevo poi recuperato i miei, di vestiti. E voleva sapere com'erano e che vezzi o colori avevano, e quanto bene mi stavano addosso. Voleva invitarmi a capire quali scelte, parole, gesti del tempo andato volevo conservare. Quali invece proprio non mi erano mai assomigliati. E quali adesso si andavano schiudendo, nuovi. 
Adesso posso rispondere. 

Conservo:
- il piacere smisurato di scritture pigre e languide dentro giornate piovose al sapor di bergamotto
- la voglia postprandiale di cinema che strugge: sala deserta, lacrime e popcorn
- la passione per le Storie Umane
- cucinare d'inverno, radio che canta, un bicchiere di vino bianco
- l'emozione profonda, dolce e bambina di quattro bracciate nel mare caldo, quando fa sera
- la mia parte giocosa, irriverente, leggera, il mio bisogno di allegria, danze, cuscinate e boccacce
- il piacere del fare operoso, del muovere lesta le mani
- la curiosità verso vie e vicoli, androni e scale, stanze e soffitte
- insegnare, che vuol dire lasciar traccia (e permettere che altri mi segnino) 
- fermare un attimo per non dimenticarlo: inquadrare, scattare, disegnare, cercar parole
- le amiche di sempre
- una simpatia per le piazze pedonali, per i luoghi del passaggio lento, in cui sedersi a sorseggiare qualcosa, indovinando vite
- l'inclinazione a vedere oltre ciò che appare
- la propensione alle carezze

Ho scoperto:
- la gioia dell'amor carnale, farcito di parole ruvide e carezze morbide; spazio che più terreno e più mistico non si può, luogo della fusione e del riconoscimento in cui tutto perdo e tutto trovo
- la rabbia, quel sano dire la mia parte incazzata
- salire: la danza dei piedi sui sassi, il dolce saggiare la terra, alla quale consegno fiduciosa i miei passi
- la curiosità dell'andare, la voglia di esplorare, il viaggio come insieme di infiniti mondi
- la bellezza della geografia fisica, in cui cose, orizzonti e cieli hanno sempre un nome
- la mia interezza, il mio involucro, le cure meravigliose che so offrirmi, generosamente

sabato 10 ottobre 2015

Kafka e la mia leggerezza


E' successo qualcosa, qualcosa di grosso. Non mi è chiaro di cosa si tratti, so soltanto che devo rincasare prima possibile, prima che la situazione degeneri. Il cielo è di piombo e cenere. La città che attraverso quasi correndo nel parapiglia generale, è austera, solenne, mi ricorda qualche capitale dell'est Europa, che peraltro io non ho mai visto.
Chi non abbandona il suo alloggio si rintana, e sbarra porte e finestre.
Mi è chiaro che quando avrò raggiunto casa sarò al sicuro, in un abbraccio caldo e protettivo. Devo solo arrivarci e nulla potrà più farmi paura.
Salgo le scale a balzi, ho l'urgenza di sapere che i miei cari stanno bene. Divido queste stanze con una donna più grande e diversi bambini, ma non sono figli nostri. E' un sollievo enorme, passando la soglia, scoprire che nulla ha turbato la loro pace.

La popolazione vive reclusa. Per le strade circola una sorta di vigilanza armata, repressiva, feroce. Il trucco per evitare il loro intervento arbitrario, sadico e punitivo, è passare inosservati. Chi è proprio costretto ad uscire cammina rasente muro, il capo coperto, gli occhi bassi. E' consigliabile vestirsi di scuro e si prediligono abiti severi, luttuosi e di vecchia fattura: lunghe palandrane, ampi mantelli. Ma è come se sotto, sotto ogni copertura grigia da ratto in fuga, potessi vedere i cuori rossi, pulsanti e vivi.

Esco di casa, tengo uno dei bambini per mano. Sa che non deve parlare, sa che deve sembrare trasparente. Andiamo rapidi verso qualcosa, è buio, urtiamo altri corpi chini, altre spalle richiuse. Ma si va avanti tattenendo il fiato. Fiuto la presenza della polizia, la percepisco ad ogni svolta, in ogni androne, lungo tutto il percorso. Però cammino serena, non ho paura e tengo stretta la piccola mano calda nella mia.
Giunti davanti ad un portone ci fermiamo e ci guardiamo attorno. Io cerco un nome fra i campanelli e suono, poi attendo. Risponde al citofono una voce di donna lontanissima e flebile (chissà perchè so che si tratta della "professoressa di grammatica"). Concitata e rapida le spiego che deve uscire, che deve partecipare, che la resistenza siamo noi, che non può esimersi. Lei si dichiara infreddolita e stanca (la legna scarseggia ovunque), dice che ha rinunciato persino ad andare a scuola, tanta fatica le costa ogni gesto.
La saluto, torno sui miei passi e la mano del bambino è sempre lì.
Percepisco le gambe svelte sotto la gonna pesante, e sono sciolte, agili, godo del loro andare leggero e del mio corpo tutto, che le accompagna.
Cammino e penso, penso a cosa potrò fare per stanare e portar fuori altre anime, per salvare altre esistenze. Ma sento, sento forte che ce la faremo, non ho nessun dubbio, nessuna incertezza.
Arriviamo a casa e ci inonda una luce calda e odore di buon cibo e voci argentine. 
Saluto, abbasso il pesante cappuccio, sorrido.

P.s. Al risveglio avevo bene in mente il palazzo in cui la mia "professoressa di grammatica" viveva. Così ho googlato palazzi europa est. L'ho trovato quasi subito. L'immagine mi ha portato al nome: palazzo Kinsky. Wikipedia dice che: tale costruzione alla fine del XIX secolo ospitava una Scuola di grammatica tedesca, frequentata tra il 1893 e il 1901 da Franz Kafka. 
Proprio lui. Che con i sogni, aveva una certa dimestichezza.

martedì 6 ottobre 2015

Alla mia ex alunna, che cresce bella e forte


Verbi e aggettivi
Mi pare un secolo, invece no.
Gli avevo mandato una foto. Indossavo un vestito chiaro e leggero, i capelli erano sciolti e portavo quegli occhi inconsapevoli che ho dismesso da tempo. Si cresce, del resto.
Lui disse che emanavo luce, ma ci tenne a sottolineare che i braccialetti di cui facevo sfoggio erano troppi. 
Troppi. Troppi per chi? Non certo per me, che li avevo scelti ed acquistati con cognizione di causa.
Troppi per lui, per il suo insindacabile giudizio?
Ecco, diffida piccola. Diffida quando sottilmente, elegantemente, velatamente, ti si dice cosa dovresti essere. Quali scarpe sarebbero perfette, quale colore (non certo quello che abitualmente scegli) ti esalta l'incarnato, come saresti intrigante se optassi per un balconcino di pizzo.
Come dire sei magnifica, ma al condizionale.

Intuizioni
Quando un pomeriggio di fine marzo dissi ridendo al padre dei miei figli "ma non sarà che si è presa una cotta per te?", già sapevo tutto. Ma non volevo vedere. Da tempo era stanco, ombroso. Il lavoro che non andava, la casa troppo stretta, un peso a cui non sapeva dar nome. Così diceva. Invece un nome c'era, eccome.
Non recrimino, anzi. Posso solo ringraziare, e lo farò fin che campo. Si è preso la briga di scoperchiare, ma non eravamo ancora pronti.
Non recrimino, tutt'altro. Poco importa se (come disse) non avevano scopato, se feci di tutto per cancellare il segno e rimetter su la faccia di sempre.
Poco importa se poi persi la direzione e finii a menar fendenti alla cieca, brutalmente, e senza decenza. Biancaneve diventa la regina Grimilde, occhi bistrati e nero vestita.
Dalla perfezione, stai lontana bimba. Diffida del lustro, della stabilità, del sorriso sempre e comunque.

E ora, sono pronta a salutarti davvero.

venerdì 2 ottobre 2015

Il luogo delle cose


E spazi che non mi erano intimi, o familiari, lo sono diventati. Ho aperto valigie dalle quali ho estratto ogni tempo del passato: prossimo, remoto, assai imperfetto. Ho disposto accuratamente le cose mie, che all'inizio tendevano a remar contro. Portavano ancora la forma dei luoghi andati. Ma dando loro tempo, mostrando noncuranza, hanno trovato dimora. Affiancate ad altre cose, dalla forma sconosciuta, hanno mischiato odori, storie, colori.
Pippi Calzelunghe, compagna di scorribande a dorso di cavallo, si è trovata a dividere i suoi giorni con giovani ed intrepidi alpinisti. Ne è parsa soddisfatta.
Da quel momento abbiamo avanzato a pas de deux e pigiato tasti bianchi e neri a quattro mani. Sono giunti la tovaglia svedese, il cardo montano, il miele sloveno, l'orso col cappello, un puzzle di legno costosissimo al quale però sarebbe stato un delitto rinunciare. Anche il pentolino rosso, che ci aspettava da tempo immemore in quella cucina senza tetto, ha preso posto.
L'altra sera si parlava, e ti chiedevi se quando si ama davvero viene tutto fluente, facile. Io ho risposto che non so, che forse non è così. Quando si ama davvero si guarda all'altro come fosse Altro e Sè assieme. Per farlo, tocca credere profondamente che Mariacher possa calarsi dall'ultima mensola della libreria bianca, passando attraverso una schiera di galline. E davvero, non c'è nulla di facile in questo.

La vita è così, stupisce

La vita è così, stupisce

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