Passo un'oretta al sole, sul Ponte del diavolo, a Cividale.
Pare che il Maligno abbia contribuito alla sua costruzione in cambio dell'anima del primo che vi fosse transitato sopra. Per realizzarlo nel breve spazio di una notte si scomodò anche la madre, trasportando nel grembiule l'imponente scoglio centrale. I Cividalesi però beffarono il diavolo, facendo percorrere il nuovo passaggio da un animale, cane o gatto a seconda delle versioni.
È un posto bello, scelgo una posizione defilata rispetto al grande movimento legato alla manifestazione. Dopo un pò, la gente mi confonde, mi satura.
Alla faccia del pantalone bianco, siedo a gambe incrociate sul lato della scalinata, e osservo.
Le persone portano le loro scelte, più o meno pavide, più o meno ardite. Gliele vedi addosso, in faccia, nei passi, nel modo di tenere la testa.
Mi chiedo se lo sappiamo tutti che siamo nati per vivere, adesso e qui, sotto le costole un ritmo irregolare, che non si fa dimenticare.
Poi mi distrae una voce baritonale, che intona qualcosa di vecchio. La folla in transito si ferma un attimo, si volta, fiuta. L'anomalia, la difformità: il flusso lento e pecoresco dell'insieme si strappa, per un attimo.
Lui avrà quarant'anni, un buon aspetto, pulito e dignitoso. Non capisci se sia già ubriaco a quest'ora del mattino o se i freni inibitori lo abbiano abbandonato per qualche sberla della vita.
Canta, ride, apostrofa i passanti. Lo buttano fuori dal museo perchè contempla un quadro disteso a terra, sul pavimento. "È la prospettiva migliore", dice mentre lo sollevano di peso.
E io seduta lì, penso che in questo matto vedo bellezza. Vedo il varco, la breccia.
Pranziamo all'aperto, in un luogo che ricordavamo bello, ma non così bello. Assaggiamo un rosso di ferro e fiori. Infiliamo gli gnocchi gialli con la forchetta, parliamo di ieri, oggi, domani. Guardiamo il gatto guercio, scegliamo un dolce al caffè.
Mi pizzico un braccio, per ricordarmi che è proprio tutto vero e possibile e mio.