mercoledì 27 giugno 2018

Il museo

Che mi basta l'arrivo del ciclo o la luna piena o un litigio stupido, per una notte insonne. E mentre sono in piedi che aspetto il caffè, mi prende tutto un torpore e ho freddo alle mani, alle gambe. La testa mi pare piena di farina, ottusa.
In quella specie di stato liquido, sento qualcosa salire dal fondo. Sono delle tavole, disegni ben tratteggiati, che venendo su cozzano, si incagliano, si voltano e si rivoltano, come spinti verso l'alto dal mio mare inquieto. 


Ecco, io che entro in casa e cammino con fatica. Mi hanno appena dimessa dall'ospadale e i miei bambini piccoli attendono alla porta. Sono pallida, provata, mi sforzo di far loro un sorriso bello, ma tutto mi costa enormemente. Edoardo che ha tre anni mi osserva sospettoso, inclina la testa. 
Poi dice "sei Gioietta?" e io rido e dopo piango.

C'è una stanza vuota, con una scala in mezzo. Qua e là barattoli di vernice bianca, pennelli, una scopa. Alcune persone transitano, dalla finestra aperta sale una voce: chiama, dice che sono pronti i panini. Scalza, attraverso il lungo corridoio con addosso una tuta chiazzata di colore e scendo gli scalini veloce, saltando a piedi uniti gli ultimi due. 
Fuori, un sole settembrino pieno di promesse.

Ci siamo noi in salotto, sul divano, che discutiamo concitati ma senza alzare troppo la voce: i bambini dormono e non devono sentire. Ho un po' paura, perchè per due volte lui avvicina le mani alla mia faccia e poi le ritira, ma sento potente l'urto della sua rabbia scura. 
Provo a dire qualcosa di calmo, qualcosa di fermo a cui aggrapparci.
Non fare sempre la psicologa del cazzo. 
Ma...
Hai capito? Non fare la psicologa del cazzo!
Dal fondo del corridoio, sento un rumore, i bambini sono svegli.

C'è un uliveto e ci sono le cicale. Sono seduta sul lettino a gambe incrociate. Mi guardo la pelle dorata, levigata, lo smalto rosso sulle unghie delle mani. Il libro di Sociologia dell'educazione è aperto in mezzo all'erba e tutto attorno fogli, dispense, pennarelli colorati.
Mi alzo, entro nella casa fresca, ombrosa e prendo una pesca. La addento, lascio che il succo scenda lungo il mento e poi lo asciugo col dorso della mano.

Siamo sul traghetto, è la prima vacanza assieme. Fa caldo, molto caldo e io sono troppo vestita. Mi vergogno della mia magrezza, la occulto come posso. Lui mi tiene la mano, osserva la gente da dietro gli occhiali da sole, le gambe allungate davanti a sè. In pace.
C'è una famigliola del nord Europa, molto benestante. Belli come sanno essere quelli che ben stanno, che possono curare il corpo, esporlo al sole, farlo riposare, rinforzarlo, nutrirlo a dovere. Lei in particolare è uno vero spettacolo: bionda, slanciata e muscolosa. Indossa degli shorts di jeans sfilacciati, una canotta bianca, un cappellaccio cow-boy. Si muove qua e là come un felino, portando in collo un bimbetto. Sa di essere bella, sa di essere guardata.
Io invece so cosa piace a lui: bionde, muscoli e shorts.  E so di essere magra, vuota, spenta, per colpa del dolore.
Cerco di capire, guardando di taglio, se lui gode dello spettacolo. Vorrei dissolvermi.

Esce il caffè. E' bollente, lo bevo a piccoli sorsi. Poi attacco al muro le mie tavole con i disegni, una dopo l'altra. Faccio un passo indietro, li osservo. Mi paiono tanto belli, così pieni di risposte.

domenica 24 giugno 2018

E insomma son contenta


Essendo la nostra una scuola non parificata, ogni anno tutti i bambini/ragazzi devono sottoporsi agli esami di idoneità presso una struttura pubblica o riconosciuta.
Questo implica un'aderenza ai programmi ministeriali e dimostra che dare spazio al pensiero creativo, ai talenti individuali, alle esperienze dirette e al fare, può magnificamente conciliarsi con obiettivi strutturati, competenze specifiche e traguardi di apprendimento.
Una delle cose che i nostri bimbi dicono più spesso, quando si tratta di descrivere la loro realtà scolastica, è "non abbiamo i banchi". Come se i nostri tavoli da cucina o salotto, sparsi qua e là nelle stanze, che rappresentano comunque uno spazio di impegno, lavoro e operosa attività, fossero lì come un segno di apertura, come la dimostrazione chiara del loro essere "liberi di apprendere".

La mia classe
Agli esami arrivano sempre pettinati ed eleganti: una mamma mi ha raccontato che il giorno precedente alle prove la sua bimba ha voluto ad ogni costo comperare un vestitino nuovo, che ha poi indossato orgogliosamente per raggiungere l'edificio scolastico con tutti i suoi "lavori" sotto braccio.
Sono sempre molto emozionati e a volte un po' tesi, come ognuno dei loro maestri. Anche per noi, che abbiamo scelto di insegnare in modo non tradizionale, l'esame è sempre un banco di prova, necessario a calibrare e misurare un intero anno di pratica. Pratica che alla fine, fermi restando i programmi, è anche per noi un esercizio di libertà: posso parlare dell'antica Roma simulando le guerre puniche, leggendo Ovidio, cucinando la salsa garum o confezionado una toga. E in tutto questo tuffarsi e nuotare nella bellezza di apprendere, manca - per scelta consapevole - la rete protettiva del registro, delle comunicazioni ufficiali, della penna rossa che sottolinea l'errore. Mancano i numeri, a dirti che hai fatto un buon lavoro, che sei un buon maestro. 
Ecco perchè anche noi arriviamo a quel giorno vibranti, carichi di emozione.
Mai come quest'anno sono stata fiera dei miei bambini. Mi è piaciuto il loro modo di approcciarsi alla commissione d'esame, il loro sorriso sicuro e il loro fare educato, il sentirli dire "ma ci avete chiesto poche cose!". Mi sono piaciute le facce compiaciute delle maestre ospitanti, il loro stupore di fronte ai bellissimi modellini e lavori personali, frutto di impegno e fatica. E la voglia dei ragazzi di dire, ancora dire e ancora mostrare, convinti di avere qualcosa di importante da comunicare, di essere riconsciuti attraverso le loro scoperte.
Come quella bimba di seconda, che uscita dall'esame orale ha detto: "ho spiegato gli egizi come fossi stata un'archeologa, li hanno capiti bene". 
Insomma bravi, e basta.

La cellula  
 
Plastico della valle glaciale
Il legionario
Il cuore

lunedì 18 giugno 2018

Pensieri e luci


E quando io son lì che mi chiedo le cose, che mi arrovello sul senso profondo di una pagine letta, che provo a capire cosa mi sta dicendo un sentire, c'è sempre qualcuno che arriva dicendo "non pensare troppo". 
Ecco, il dialogo è più o meno questo:
- Ma non pensare troppo!
- Non penso troppo.
- Però ti angusti per le cose.
- Eh, mi pare normale.
- Sembra che non ti goda la vita con tutti quei pensieri...
Ecco, io non capisco. Come se riflettere, smontare i fatti, porsi dei quesiti sulle proprie e altrui risposte ai fatti della vita, volesse dire "ho le ugge, adoro sguazzare nel torbido, anelo ad un leopardiano e insanabile sconforto".
Fin da bambina invece, ho tratto grandi gioie da una costante attività di taglio e cucito: un dialogo, un passo lesto, una parola nuova, l'onda morbida di un'acconciatura, una dichiarazione d'intenti, il verso di una poesia. E lì subito a tirare fili, a cercare connessioni, corrispondenze, come se attorno a me ogni cosa si muovesse segreta e si dicesse crittografata, in attesa del mio sguardo attento pronto a schiudere il vero senso del tutto.
Ora so che non è così. O perlomeno, che non è proprio così. Ma ancora credo alle luci che si accendono, ai colpi di genio che folgorano, alle chiavi che all'improvviso disserranno porte affacciate sulla bellezza. E rimango chirurgica nelle letture, soprattutto quando si tratta di me. Perchè hai dato quella risposta sgarbata? Cosa si era agitato dentro di te? Perchè hai avuto bisogno di raccontare una certa cosa, che ti mettesse in luce? Cosa volevi dimostrare, quale debolezza celavi? Perchè questa persona ti irrita? Quali corde sta toccando, quali ricordi smuove?
Se colgo incoerenza, contraddizione, torpore, abulia, allora provo impellente il bisogno di agire e fare e spostare pedine.
Come dire che arrovellarmi un poco mi porta all'azione. Come dire che pensare - il giusto -, mi fa star bene.
Nel frattempo, sia chiaro, sorrido molto. E bevo un bicchiere di Sauvignon e dico sconcezze e canto quel che capita, come capita, pensando ad un paio di sandali rossi.

lunedì 11 giugno 2018

Di nuove generazioni


Alla bambina cade dalle mani la scatoletta. I frutti di bosco che conteneva, rotolano quasi tutti sul pavimento, tranne alcuni che fortunatamente restano sul tappo rovesciato.
Siamo io e lei da sole: alziamo in sincro gli occhi da terra e ci guardiamo. Decido di non commentare e continuo a sistemare alcuni libri, come nulla fosse: voglio capire cosa intende fare.
La bimba, che ha circa sei anni, rimane con le braccia lungo i fianchi, affranta. Sposta lo sguardo triste dai frutti a me e viceversa, ma non parla e non si muove. 
Dopo qualche minuto mi rassegno a dire qualcosa. 
- Cosa vuoi fare?
- Non so.
- Penso che si debbano togliere lì, lo credi anche tu?
Fa sì con la testa.
- E quindi?
- Li raccologo e li butto.
- Bene. Dove li butti?
- Nelle immondizie.
- Giusto. Ma tutti li butti nelle immondizie?
Guarda a terra ancora, incerta, poi fa no con la testa. E rimane lì, ferma.
- Allora forza. Butta quelli che devi buttare.
- In quale cestino? 
D'istinto mi verrebbe da raccogliere tutto con due manate e chiudere la faccenda il più velocemente possibile. Ma so che non va bene. So che è abituata proprio a questo e questo si aspetta da me.
- Tesoro, secondo te dove si buttano gli avanzi delle cose da mangiare?
Cerca a destra, a sinistra. Il cesto dell'umido è proprio dietro di lei e non lo vede.
- Guarda, è dietro di te.
Con lentezza senile si china a raccogliere i frutti, ma la vedo titubante e accigliata nel momento in cui si appresta ad affrontare quelli puliti, rimasti sul tappo rovesciato.
- Dove li metto questi?
- Attenta che se non li mangi tu, li mangio io!
 E la faccio ridere. Ma resto così, con la faccia da pesce.


Una collega delle medie accompagna i suoi alunni presso un liceo cittadino per svolgere delle attività con i ragazzi più grandi. 
Fanno il loro ingresso in una classe terza, mentre è in corso la lezione.
Il prof spiega, parla e si anima, ma gran parte dei ragazzi smatetta a testa china con il cellulare: la cosa è piuttosto plateale e decisamente brutta da vedere.
Appena la collega ha occasione di scambiare due parole con il professore, commenta la cosa e chiede se è lecito che durante la lezione si facciano beatamente gli affari loro.
- Non sarebbe lecito, ma prova a toglierglielo...
Ecco, questa risposta mi fa rabbrividire. Anzi, mi fa incazzare. Non ti vergogni, caro collega, ad esporre la tua miseria con una simile calata di braghe? Perchè, non è forse tuo compito prendere una posizione, netta e decisa? E qui, non sei tu il tutore della legge? Non ti compete un ruolo educativo, un contenimento, una presenza forte, autorevole e proprio per questo, anche rassicurante?
Se a fronte di quattro genitori maneschi e trogloditi, chi dovrebbe garantire il rispetto delle persone e delle regole, se ne lava le mani e rincula, io non so più che dire. 
Tanta amarezza.

venerdì 8 giugno 2018

Restano
















E non riesco a disabituarmi.
Al braccio allungato, dietro,
alla mano chiusa nella mia:
dai vieni, andiamo
ma ci sono i lego nella vetina e un fucile ad acqua
che spara a spruzzo.
Te lo regala la nonna,
che sto mese mi tocca pagare l'apparecchio.
L'altro sta poggiato sul fianco,
come una scimmia mi si attacca al collo
mentre cerco le chiavi dell'auto nella borsa.
Ha le dita sporche di gelato,
la bocca appiccicata alla mia spalla.
Ecco,
io non riesco a riempire il vuoto
del palmo della mano
e del fianco.
Mi pare d'essere cava,
anche se sono piena.
I due ragazzi seduti qui al mio tavolo
ora mi raccontano di un sogno, di un profumo, di un film (ti piacerebbe mamma!).
Restano, i miei bambini,
in certe foto di salvagenti, biciclette
e giochi sudati.

La vita è così, stupisce

La vita è così, stupisce

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