Che mi basta l'arrivo del ciclo o la luna piena o un litigio stupido, per una notte insonne. E mentre sono in piedi che aspetto il caffè, mi prende tutto un torpore e ho freddo alle mani, alle gambe. La testa mi pare piena di farina, ottusa.
In quella specie di stato liquido, sento qualcosa salire dal fondo. Sono delle tavole, disegni ben tratteggiati, che venendo su cozzano, si incagliano, si voltano e si rivoltano, come spinti verso l'alto dal mio mare inquieto.
Ecco, io che entro in casa e cammino con fatica. Mi hanno appena dimessa dall'ospadale e i miei bambini piccoli attendono alla porta. Sono pallida, provata, mi sforzo di far loro un sorriso bello, ma tutto mi costa enormemente. Edoardo che ha tre anni mi osserva sospettoso, inclina la testa.
Poi dice "sei Gioietta?" e io rido e dopo piango.
C'è una stanza vuota, con una scala in mezzo. Qua e là barattoli di vernice bianca, pennelli, una scopa. Alcune persone transitano, dalla finestra aperta sale una voce: chiama, dice che sono pronti i panini. Scalza, attraverso il lungo corridoio con addosso una tuta chiazzata di colore e scendo gli scalini veloce, saltando a piedi uniti gli ultimi due.
Fuori, un sole settembrino pieno di promesse.
Ci siamo noi in salotto, sul divano, che discutiamo concitati ma senza alzare troppo la voce: i bambini dormono e non devono sentire. Ho un po' paura, perchè per due volte lui avvicina le mani alla mia faccia e poi le ritira, ma sento potente l'urto della sua rabbia scura.
Provo a dire qualcosa di calmo, qualcosa di fermo a cui aggrapparci.
Non fare sempre la psicologa del cazzo.
Ma...
Hai capito? Non fare la psicologa del cazzo!
Dal fondo del corridoio, sento un rumore, i bambini sono svegli.
C'è un uliveto e ci sono le cicale. Sono
seduta sul lettino a gambe incrociate. Mi guardo la pelle dorata,
levigata, lo smalto rosso sulle unghie delle mani. Il libro di
Sociologia dell'educazione è aperto in mezzo all'erba e tutto attorno fogli,
dispense, pennarelli colorati.
Mi
alzo, entro nella casa fresca, ombrosa e prendo una pesca. La addento,
lascio che il succo scenda lungo il mento e poi lo asciugo col dorso
della mano.
Siamo sul traghetto, è la prima vacanza
assieme. Fa caldo, molto caldo e io sono troppo vestita. Mi vergogno
della mia magrezza, la occulto come posso. Lui mi tiene la mano, osserva
la gente da dietro gli occhiali da sole, le gambe allungate davanti a
sè. In pace.
C'è una famigliola
del nord Europa, molto benestante. Belli come sanno essere quelli che
ben stanno, che possono curare il corpo, esporlo al sole, farlo
riposare, rinforzarlo, nutrirlo a dovere. Lei in particolare è uno vero spettacolo: bionda, slanciata e muscolosa. Indossa degli shorts di jeans
sfilacciati, una canotta bianca, un cappellaccio cow-boy. Si muove qua e
là come un felino, portando in collo un bimbetto. Sa di essere bella,
sa di essere guardata.
Io invece so cosa piace a lui: bionde, muscoli e shorts. E so di essere magra, vuota, spenta, per colpa del dolore.
Cerco di capire, guardando di taglio, se lui gode dello spettacolo. Vorrei dissolvermi.
Esce il caffè. E' bollente, lo bevo a piccoli sorsi. Poi attacco al muro le mie tavole con i disegni, una dopo l'altra. Faccio un passo indietro, li osservo. Mi paiono tanto belli, così pieni di risposte.