Quando uno se ne va a 97 anni, pare illogico farsi dei patemi. Come se fossimo mozzarelle, con la scadenza scritta. Dopo una certa data, via nel secchio dell'umido.
Vero che ci si fa l'idea, che ci si prepara, che inconsapevolmente si pesca nel sacchetto dei ricordi per salvare in tempo le cose belle, le parole pronunciate, i gesti conclusi e rotondi. Si rispolvera, si archivia.
Io conservo l'odore dell'olio per la macchina da cucire. Le chiacchiere alle cinque del mattino, lei che mi parlava così in fretta, io che a malapena tenevo gli occhi aperti. I baci che non si lasciava dare perchè si sentiva sempre troppo sudata, o spettinata, o stropicciata. Quelli che io le davo lo stesso, e le risate che faceva scansandosi come poteva. Conservo le raccomandazione che ha fatto al mio uomo un paio di anni fa. Trattala bene, che è speciale. Altrimenti te la vedi con me.
Mi vergogno, sono andata a trovarla poco da quando stava in ospizio. Cento chilometri a separarci, cento impegni sempre e comunque, ma sono onesta, non è solo questo. Troppo diffcile reggere l'insieme, troppo doloroso, ogni volta giorni e giorni per smaltire quel senso di perdita, smarrimento, angoscia.
Siamo fatti male, la morte cerchiamo di lasciarla fuori, vorremo occultare la sofferenza.
Da quando mamma mi ha chiamata, da quando non sono più una nipote, qualcosa gratta forte fra la gola e la bocca dello stomaco. Va oltre il dispiacere, oltre il vuoto, chiama me.
Se almeno le avessi detto mandi.