Sei anni fa partecipavo ad una settimana di formazione intensiva a 400 chilometri da casa. Era la prima volta che lasciavo la mia casella quadrata da sola e mi allontanavo così tanto, e per così tanto tempo.
Si sa, mai tenere fermo qualcuno se davvero lo si ama, se davvero non lo si vuol perdere. E noi eravamo in due a soffocare, limitare, giocare la carta del senso di colpa. Quanta paura.
Ebbene parto col vecchio Peugeot e molte carte geografiche (il vecchio Peugeot non aveva il senso dell'orientamento) e tutto un frullar d'ali dentro, neanche mi apprestassi ad una traversata oceanica a bordo di un guscio di noce.
C'è un diarietto rosso in cui sono fissati, come piccoli fuochi accesi, tutti gli incontri, le suggestioni, le stranite colazioni (era tutto da reimparare, tutti i gesti da ritrovare), l'intensità di odori e colori e sapori di quela settimana gialla d'agosto che pareva imbastita per me.
Nel mio stesso albergo alloggiavano diversi corsisti; fra questi una donna matura con l'aria fiera e bella, che mi catturò da subito e che da subito cercai di avvicinare. Stingemmo amicizia il secondo giorno durante una pausa caffè e per il resto della settimana, appena le lezioni terminavano, condividevamo la passeggiata fino all'hotel, un apertitivo, una cena in piazza.
M. era una terapeuta, una nonna, una scrittrice e aveva dentro storie, così tante storie che non mi satancavo mai di sentirla parlare.
Una sera, mentre ci perdevamo tra i vicoli in quel languore estivo, le chiesi dell'amore. Volevo sapere se l'uomo a cui era sposata la amava, se lei lo amava.
Prima di raccontare, prima di nutrire il mio cuore affamato, sospirò e mi sorrise come a chiedermi se ero pronta.
Sappi di lei, una sposa troppo giovane e due figli arrivati subito, uno via l'altro. Mi parlò dell'amore che ha forme diverse e di com'è diverso il nostro modo di amare attraverso il tempo.
Adesso sì, poteva dire autentico e profondo il sentimento che la legava al marito, era certa di quel sentire e lo definiva amore. Ma non prima. Prima di incontrare l'altro, quello che aveva scombinato tutti i suoi fogli, quello fuori dal recinto, che aveva fatto impallidire le sue minute, esili certezze.
Mi parlò della passione che acceca e devasta, del corpo che muta e si protende e si fa molle, di squallidi motel e folli corse in autostrada. Disse che l'aver scalzato i paletti, l'aver buttato all'aria i suoi disegni di bambina, l'essersi trovata scoperta, nuda, sola, le aveva permesso di capire cosa realmente le appartenesse e volesse per sè.
Ascoltavo trattenendo il fiato, con la sensazione precisa che quella storia avesse a che fare con la mia.
Pochi mesi dopo, mentre attraversavo l'Italia con gli occhi gonfi di notti bianche e nostalgia, la chiamai, per sentire la sua voce.