domenica 30 agosto 2015

E salirò, salirò, salirò, fino a quando sarò solamente un puntino lontano (D. Silvestri)


Insomma finalmente l'ho vista. La Valle dei Sette Laghi. 
No no, non è l'attacco di un'altra favola, solo un posto verissimo, che attraversi coi piedi, e anche con gli occhi, però senza parlare tanto, che di fiato te ne resta poco.
Siamo saliti un po' immusoniti: nella vita si litiga, a volte. Meno male, mi vien da dire, perchè mamma e papà mai uno screzio, un'alzata di voce, ed è successo di tutto. Mucchi di scheletri dentro gli armadi. Allora penso che scontrarsi qualche volta, e poi dirsi, e poi abbracciarsi, vada proprio bene, che non siamo qualcosa da calzare senza pieghe. Qui abbondiamo, là stringiamo, ma addosso ci si aggiusta un poco e alla fine si sta da dio, come nel vestito della festa.
Allora su su su, prima dentro il bosco con quei massi enormi, scesi chissà quando, e faggi maestri piantati nella terra rossa. Poi a metà strada il tuffo nel mare bianco dei sassi, sotto le schiene erette o ricurve di monti battezzati dalle tempeste: Kanjavec, Vrsac, Mojstrovka.
Millequattrocento metri di dislivello, cazzo se ci tengo a dirlo. Come i bambini che fanno a gara quando trattengono il fiato. Io trenta secondi, io quaranta, io sessanta. Io millequattrocento abbondanti, e non mi parevano davvero così tanti. Questo mi piace.
La Claudia, che mi conosce da quando avevo undici anni, se la rideva l'altra sera. Da un bel po' non ci si vedeva. "Tu sportiva? Non ci posso credere".
Sportiva io. No, non lo sono affatto. Perchè dello sportivo mi manca il metodo, la pratica costante, il pensiero strutturato. Io vado su, vado perchè mi piace, vado perchè qualcosa mi chiama, vado piena di emozione e a ogni curva del sentiero tutto si spalanca, emerge, si apre. 
Volevo dirle questo, ma non è facile. Allora costruirò un pop up, magari si capisce meglio.

Ecco, io sono quella col vestito giallo. Quella che sale e canta.

martedì 25 agosto 2015

La Domanda

L

E si aprirono i cancelli. 
Da tutti i regni giunsero fanciulle in fiore, per incontrare il Principe della Vetta: carovane e portantine, carrozze e cammelli, baldacchini e convogli. Passava voce che una di loro, dalla pelle d'ebano, avesse viaggiato da solstizio a solstizio sul dorso di un pachiderma.
Ogni tornante della strada impervia e serpeggiante che conduceva al castello, era ingombro di carri, ancelle, schiavi, bestie, che bivaccavano in attesa del gran giorno. Anche dalla piana si potevano scorgere lucenti vesti orientali, colbacchi candidi, corone di fiori intrecciati, e udire musiche struggenti e dolcissime, capaci di ridurre al pianto il più ardito paladino.
"Come i chicchi di tre melagrane", dichiarò una guardia reale vantandosi di averle contate tutte, quelle spose promesse.
Nelle cucine del castello, donne in carne dai seni bianchi parlavano fra loro, spennando tacchini ben sazi e farcendo lepri svelte, tradite dalla luna.
"Non è più lui", disse la serva anziana che sceglieva personalmente per il Signore i pomi più dolci dal frutteto reale, "i suoi occhi sono d'acqua stagna".
"Non si è più ripreso", sentenziò l'addetta alle provvigioni di sale rosa.
La sguattera giovane, graziata da sonni pesanti e colmi di sogni infantili, sospirò. "Raccontaci ancora di quel giorno, Nunzia".
Accadde quando i fiocchi della prima neve annunciarono il lungo inverno della Vetta. Capitava così, da un giorno all'altro: il cielo si faceva ardesia e un'aria secca di ghiaccio, a cavallo della tramontana, trascinava via novembre e il suo sentore di foglie.
Accadde quando il Principe, affacciato al tubinio lieve, ai coppi rossi che andavano scomparendo sotto i suoi occhi, li vide. Nei pressi del pozzo, un uomo e una donna a capo scoperto sedevano affiancandosi, composti. I due servitori, che il Principe ben conosceva, e a ai quali forse aveva rivolto brevi cenni col capo o impartito distratti ordini, parlavano sfiorandosi le mani, mentre tutto il gran fioccare bagnava loro le vesti. A quella distanza non poteva udire le parole, ma s'incantò dei gesti, delle espressioni, della bellezza che ogni cosa pronunciata generava, trasfigurando volti e corpi.
Allora scese, scese quasi mille gradini nel tempo di un battito di ciglia, per interrogarli subito, per sapere quale suono e consistenza e timbro avessero quelle parole non udite. Quando giunse al pozzo, dei due amanti non v'era più nessuna traccia.
Il principe li cercò ovunque fino a tarda notte, attraversando ogni salone, dormitorio, magazzino. Chiamò le guardie, convocò i suoi uomini, descrisse i due alla servitù. Il mattino seguente, qualcuno al villaggio disse di averli visti scendere lentamente la china, diretti al luogo da cui ogni convoglio partiva.
"Da quel giorno", chiuse Nunzia sbucciando una patata, "il Principe non si dà pace. Si tormenta e mormora nel sonno, che a lui non è mai stato dato di sentire parole come quelle, carezze costruite dalla lingua e dal palato".
La giovane serva sospirò nuovamente, e non fece in tempo a dire che una sguattera guercia le mise fra le mani un cesto di grosse lumache da spurgare. "Avanti, ora si lavora bellina!"
L'araldo, giù in piazza d'armi, invocava ora un nome ora l'altro: nomi lunghissimi di spezie e danze, nomi asciutti e freddi di spazi siderali, immacolati.
Una ad una le fanciulle si inchinarono al cospetto del Principe, mostrando bellezze e talenti. Odalische falene e cantrici di tarab, ricamatrici Chuan e amazzoni che d'oro avevano occhi, pelle, chiome.
Il Principe, abbandonato su uno scranno, assisteva distratto a quella malia di colori, volteggi, lusinghe, in attesa che ogni esibizione avesse fine e fosse posta la Domanda.
Lì si faceva attento, proteso, vigile, rizzava la schiena.
"Ora ditemi, cos'è l'amore?"
La giovane di turno, ancora tesa nello sforzo, il petto ansante, volgeva allora lo sguardo attorno, in un muto appello alla moltitudine di figure devote che si stringevano al sovrano. Un paggio si aggiustava il panciotto, una guardia reale saggiava la sua lancia, una seva solerte nettava una macchia con l'angolo del grembiule. Parevano dire con il loro impaccio, che la risposta alla Domanda era oscura all'uomo che si piega e si china, e non conosce vezzi, languori, morbidezze. Tempo.
"Il luogo celeste in cui tutto è armonia", disse la suonatrice di cetra normanna.
"Un ramo di pesco cresciuto fra le rocce", sussurrò con voce di seta la filatrice di bozzoli.
Il Principe ascoltava, sempre adagiando il cuore ad ogni parola, sempre cullandsi nell'ottusa speranza di trovare la chiave per quell'incanto che rende creature di Dio. Ma ogni volta, ad ogni risposta, abbassava lo sguardo, scuoteva la testa, il cuore gonfio di malinconia. Alzava poi un braccio, stancamente, affichè le guardie conducessero altrove la sventurata fanciulla, che in lacrime si lasciava scortare, chiedendosi affranta dove fosse il difetto, l'inciampo, la nota stonata.
Scendeva ormai la sera. Fu annunciato l'ultimo dei nomi ed un saggio consigliere si premurò di avvertire che forse non serviva darsi la pena di affrontare quell'incontro. Una giovane cresciuta nei boschi, disse, senza arti nè estri. Che poco aveva visto, che niente conosceva.
Ma il Principe chiese di procedere, perchè ogni cosa va fatta per bene, e fino in fondo.
La minuta creatura figlia di rovi, legni e ruscelli, entrò misurando la stanza con passi piccoli e solenni. Nere le trecce austere, nero l'abito privo di ornamenti.
"Coraggio, ora cosa mostrerai al nostro Signore?", domandò il consigliere, tradendo la sua boria.
Così lei avanzò lenta, a viso alto, e nei suoi occhi chiamò gli occhi del Principe, e li tenne stretti senza lasciarli mai.
Nessuno osò fermarla, nessuno osò dire che il protocollo non prevedeva, non contemplava, non concedeva. Nel silenzio liquido galleggiava il suo fiato, che poco a poco trovò quello del Principe, lo cinse e le due gole si mossero all'unisono.
Giunta dinanzi a lui si piegò appena, con magnifica grazia, e come cogliendo l'anemone più raro e cagionevole, sollevò la mano del Principe. La tenne nuda, disarmata, il palmo verso l'alto. Poi adagio, consegnò a quella mano la sua tempia, il suo zigomo, l'angolo della sua bocca, respirando grata la sua pelle. E restò.

domenica 16 agosto 2015

Vicino lontano


- Vedi, io soffro perchè amo troppo.
- E che cazzo significa?
- Significa che nell'amore mi perdo, mi annullo, che nell'amore dimentico chi sono, cosa voglio. Io sono l'Altro, voglio i desideri dell'Altro.
- Te lo chiede l'Altro, di desiderare ciò che desidera?
-  No, però a me non riesce diversamente.
- Stronzate.
- Perchè mi dici questo? E' una sensazione dolorosa.
- Ma che brava, ti daranno il Nobel. 
- Sei cattiva...
- Hai ragione, scusa. Solo che non capisco. E non tirarmi fuori tutta la caterva di coglionate sull'infanzia infelice e la figura del padre e la paura di perdere. Preso atto che tu sei questa, che questo è il tuo passato poco roseo, prova a prendere il comando della baracca. Mica dovrai stare sotto il tavolo tutta la vita, no? Avrai il POTERE, porca puttana, di decidere cosa vuoi essere?
- Ma non esisto senza l'Altro.
- Oddio, mi fai incazzare. Ti serve l'Altro per guidare? Per trovare una strada? Ti serve l'Altro per leggere o andare al cinema? Sai cucinare il risotto agli asparagi, vero? O te lo deve dire l'Altro come si fa?
- Ma cosa c'entra questo.
- C'entra eccome. Tu sei tu. La tua storia coi mille mattoni e ricordi è solo tua. Hai sorriso, pianto, hai amato, hai viaggiato, visto cose e facce. TU le hai viste, mi capisci? TU sei quella che attraversa ogni giorno il mondo, quel sorriso è il TUO, e gli altri vedono TE non l'Altro. Ti basta?
- Non lo so, adesso basta discutere. Cosa stai leggendo? Hai sottolineato tutte le pagine.
- Un libro bello. Senti questo. Il sapere non è mai un tutto-pieno, è sempre percorso da una faglia, da una mancanza che abita il cuore. Non lo possiamo possedere, come non possiamo possedere l'altro da cui proviene. La possibilità del sapere e della parola che lo nutre è data solo quando la bocca non è piena di cibo, quando c'è silenzio sufficiente perchè essa venga ascoltata. Ecco, ora prova a sostituire la parola "sapere" con la parola "amore".
- Che meraviglia.
- Già. Ma hai capito?
- Eh, sì. Ci deve essere uno spazio fra me e l'Altro. 
- Uno spazio, esatto. Ma può essere colmo di cose belle, che si sfiorano reciprocamente, che reciprocamente sussurrano, senza però confondersi. Ci sei tu, c'è il cuscinetto tuo, quello suo, e poi c'è l'Altro.
- Mi piace.
- Bene. Non volevi fare il risotto con gli asparagi stasera? Diamoci da fare, che è ora di cena.

lunedì 10 agosto 2015

Stars



Con le coperte in spalla andiamo in quel pratino sotto i monti, che lì fa buio fitto. Figlio Piccolo, Figlio più Grande, Lui e Io. 

- Ho un sacco di desideri però.
- Io solo tre.
- Ne vedremo tante di stelle?
- Chissà, speriamo almeno una.
- Una grossa allora.
Ci mettiamo giù faccia al cielo, che quando si è distesi così si diventa proprio tutti uguali, e il corpo non porta più altezza, spessore, età.
- Quella è la stella polare, mamma?
E risponde Lui, perchè di stelle, geografie, punti cardinali, io so quel poco che mi basta. Invece Lui sa, è il mondo suo quello dei luoghi, degli spazi, delle distanze.
Figlio Piccolo parla e parla. E' fatto così, sente vibrare e vibra. Poi trova il suo posto.
Figlio Grande tace e ascolta. Anche senza luce posso vedere i suoi occhi liquidi e pieni di dolcezze, di paure, di fremiti. Non esprime, ma io capisco.
Io e Lui ci teniamo per mano sotto la coperta, Figlio Piccolo si mette tutto di traverso, con la testa sul mio petto e i piedi sulla pancia del fratello.
Poi i Figli discutono, perchè non era una stella - bugiardo, volevi solo vederne una in più - era un satellite o un aereo o chissà. Lui ride con la bocca e il cuore, lo sento, e vorrebbe qui anche sua Figlia, che dopo un po' gli manca.
Stiamo lì, un fresco d'erba che pizzica il naso. Figlio Piccolo non so come, dice che siamo una famiglia. Mi verrebbe da baciarlo, ma guasterei tutto. Perchè sappiamo che questa famiglia è frutto di perdite e lutti e tagli dolorosi. Che non è sempre facile mettere assieme ciò che è stato, chi non c'è, quello che vorremmo fosse, le cose che abbiamo in mano.
Ma in qualche modo sì, siamo una famiglia. Che si mescola, si dosa, con piccoli passi avanti e indietro.
Poi eccola la stella, attraversa tutta la volta celeste. Non ne avevo mai vista una così grande e luminosa, con la scia doppia tutta un luccicare. Una grossa, come volevamo.
- Ma era pazzesca!
- Hai espresso il desiderio? Questa vale doppio.

giovedì 6 agosto 2015

My car

Squilla il telefono, numero sconosciuto.
- Parlo con la ragazza della Ypsilon?
Dopo un attimo di incertezza (quale ragazza?) rispondo che sì, sono proprio io.
- Ciao, domani ti faccio l'auto, se vuoi è pronta per lunedì.
 Wow, ci siamo.

Un mese fa ho deciso, per cause di forza maggiore, che il vecchio Peugeot aveva i giorni contati. C'erano almeno due spie sconosciute costantemente accese e da poco avevo bucato la gomma anteriore. Quando il gommista l'aveva sostituita (con quella di scorta, ancora più consunta), dopo aver bestemmiato in idioma locale mi aveva guardata per qualche secondo con un misto fra sconcerto e ammirazione. Una survivor, praticamente. 
Inoltre, a luglio scadeva il collaudo. Il cambio era d'obbligo.

Così è iniziata la lunga ricerca di un mezzo idoneo: usato ma non troppo, a prezzo stracciato, motore solido, un minimo di garanzia. L'estetica mi interessava poco. Che se avessi i mezzi sceglierei cose di questo tipo: 


Ora, non potendo permettermi un DS Pallas bianco azzurro, prendo quel che capita, basta che duri nel tempo e presenti buona resistenza alle mia partenze sprint (sì, lo so, non lo farò più). 
Cerca che ti cerca, nel cortile di un piccolo venditore locale, vediamo questa:

  

Non sarà il Pallas, ma è carina. E costa un poco che per me è tanto, ma vale la spesa. 
Si fanno le carte, si assicura il mezzo e tutta fiera passo a ritirarla. 
La sera stessa, mentre sfreccio sulla A4, il display luminoso mi invita ad arrestare il veicolo. Avaria. 
AVARIA? Ma di cosa stiamo parlando? Ho un'auto (quasi) nuova e lustrissima e posso ascoltare la musica non a singhiozzo e l'aria condizionata funziona anche se non colpisco il cruscotto e i finestrini scendono. Eh sì, signori e signore, i finestrini scendono davvero! 
Insomma, ho questo giocattolino bellissimo, e mi dite che devo arrestarlo??? Vogliamo scherzare?

Un mese. Un mese è stata dal meccanico, che il concessionario diceva che non pagava e il vecchio proprietario diceva che doveva pagare il meccanico che l'aveva revisionata. E insomma martedì finalmente è pronta.
La ragazza della Ypsilon non vede l'ora.

lunedì 3 agosto 2015

Eredità




Mi hai deluso.
Esiste un modo più crudele, più subdolo e più efficace di colpire al cuore?
Si può dire rabbia, scontento, tristezza. Si può dire dolore, stanchezza, paura. Ma la delusione, la mancata aderenza dell'altro al nostro copione, è un dito puntato. E' come dire "sei tu che che non funzioni".
L'ho mai fatto? Ho mai puntato il dito? Certo. Lo si capisce dopo, tristemente, a posteriori.
La delusione cambia gli occhi. Li vela di malinconia, li porta lontano, li rende impietosi giudici. 
E io che pensavo tu fossi.
E io che credevo tu potessi.
E io che speravo. Volevo. Sognavo.
Così dicono gli occhi. Rovesciando sogni infranti, attese di bellezza e meraviglia. Dicono che non sei all'altezza, che non ce l'hai fatta.
Papà è sulla porta, io sto uscendo. So che mi vorrebbe snella, geniale, sportiva, brillante. Invece ha di fronte questa ragazza malinconica e morbida, che inciampa e non misura gli spazi, che passa le giornate a scrivere, mentre i suoi compagni se ne vanno al mare. Fai quello che vuoi, dice. 
Ma i suoi occhi, scappano altrove.

La vita è così, stupisce

La vita è così, stupisce

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