domenica 27 dicembre 2015

I feel my heart beating


I feel my heart beating
I feel my heart underneath my skin

 
Il giorno di Natale verso le 12, mentre il mondo intero banchettava, io attraversavo un bosco (suuuuu e giuuuuuuù, suuuuuu e giuuuuuù...) con gli sci ai piedi. I due, che tempo fa mi parevano decisamente recalcitranti, adesso collaborano di buon grado. Sì, quel che basta a non finire la mia sessione in un bagno di sudore. 
Il mio cervello è ancora tutto elettrico mentre scio, le connessioni ipertrofiche. Un mondo di variabili da controllare: respirazione, direzione della pista, coordinazione, posizione dei bastoncini, angolatura, bolidi che arrivano alle spalle, rametti di traverso da evitare assolutamente.
Però rido, quando un passo mi sembra particolarmente riuscito. E a volte, per pochi minuti, mi capita di andare. Andare e basta, con moto dolce e perpetuo che non necessita di pensiero. 

Ieri siamo andati a pranzo dalla mamma e c'era anche la nonna, in libera uscita. 
L'ho abbracciata. "Ciao nonna. Che messa in piega festaiola".
Ha sorriso. "Pare impossibile adesso, ma ero proprio bella una volta", dice.
"Lo sei anche ora. Come va?"
"Come vuoi che vada. Finito il pranzo devo tornare là e invece vorrei casa mia".
Mi ha preso un groppone. Ho provato lo stesso a rilanciare.
"Sai quante signore novantaseienni godono di una giornata coi nipoti e i bis-nipoti, tutte arzille come te?"
"Lo so, è una fortuna grande. Ma preferirei essere un po' meno arzilla, un po' più rimbambita. Così magari non soffrirei".
Non c'era proprio altro da aggiungere.

Ho ricevuto dei regali bellissimi, e capita quando non c'è aspettativa alcuna. Il plaid con Masha che fa le boccacce, il mio Erri, tre serie di Modern Family, cremine profumate, una gallina arancione, la voce di Chris bella più che mai. Ho goduto immensamente dell'altrui spacchettare, delle mani impazienti, dei grati sorrisi.

In questi giorni di bilanci, mi è capitato di sentire affermazioni come queste:
- avresti/avrei dovuto
- ho/hai/ha sbagliato
- è stato un errore, potevo /potevi/poteva fare diversamente
Ecco, tutte cazzate. Risparmiamocele. Perchè lo ribadisco, l'errore non esiste. Esiste solo ed esclusivamente quello che possiamo fare in un determinato momento, con i nostri limiti e le nostre forze. Ammetterlo, ammettere di essere oggettivamente limitati, e di agire per come possiamo, è già da supereroi.

lunedì 21 dicembre 2015

Sorprese


Papà non diceva mai ti voglio bene, lui si faceva amare. Sondavo le profondità dei suoi occhi, dei suoi gesti, per capire. Spesso, troppo spesso, disapprovava.
Ma quando tornava da uno dei suoi viaggi, estraeva dalla valigia meraviglie, per me. Un copricapo indiano, un libro minuscolo da leggere con la lente. Dolcetti dai gusti speziati e sconosciuti.
Forse per questo amo così tanto le sorprese. Amo spalancare bocca e occhi: aprendo un armadio, scendendo le scale, alzando le coperte, frugando nella borsa, rovistando nel cassetto dei calzini, sollevando il cuscino del divano, guardando il display del cellulare.
Mi piacciono gli oggetti inutili, le parole inventate, splendide nella loro frivolezza. Un nastro, un biglietto buffo, una scatolina azzurra, slip a pois, orecchini piumati, penne glitter, un anello di fili intrecciati. 
Mi piacciono cose improbabili, scovate, cacciate, estratte per me.
Mi piace quando qualcuno, pensandomi adopera le mani. Una cuffia rossa a punto riso, una lettera piena di nostalgie e scarabocchi, una cornice sbilenca di conchiglie, un fiore essiccato, un ciondolo di legno levigato, una torta al cioccolato.
Non dimentico mai un'attenzione speciale, l'inattesa grazia di uno slancio impensato.
Sì, lui non diceva mai ti voglio bene. Forse per questo amo le sorprese.

venerdì 11 dicembre 2015

Investimenti


Laguna, canali, trampolieri migratori. Ero arrivata lì non so come, così liquida, sirena bionda di nero fasciata. Che mi era toccato scendere dall'auto coi tacchi alti, in quell'infinita pianura gialloblu, e chiedere un'informazione ai quattro avventori dell'unica osteria. Come un'apparizione mi avevano guardata.
"Dirita te ga de andar, sempre dirita".
E così avevo fatto, sempre dritta.
Di quel giorno mi resta il ricordo di un sole rotondo, che chiamava la pelle, le braccia. E una battuta che lui disse al calar della sera, prima che le nostre auto puntassero in direzione opposta.
"Sei un investimento per il mio futuro. Non esiste un'altra così devota".
Credo che proprio in quel momento, in quell'attimo preciso con il cielo rosso e l'odore della terra smossa, tutto mi fu chiaro.
Così fanno, le devote.
Per dirla tutta, quella devota, quella appesa, quella in attesa, quella geisha dolce e sospesa, e senza pretesa, dismise i suoi occhi velati all'improvviso, senza preavviso.
Tornò verso est, sulle labbra un motivetto.

After all this, won't you give me a smile?
I never felt so much a' like
(The Clash, London Calling) 

lunedì 7 dicembre 2015

Malato grave

 
Così, stavo pulendo un po' casa. Ma non ero vestita da casa, indossavo i miei jeans, perchè tendenzialmente non mi piace essere vestita "da casa". Mentre lavoravo con i guanti gialli ben calzati, mi hanno chiamata al telefono, e dopo aver riattaccato ho infilato il cellulare nella tasca di dietro, per far svelta, e finire in fretta di passare il pavimento con lo straccio.
Vado su e giù con lo spazzolone, e ancora su e giù, poi urto con il braccio la scopa, che ovviamente cade, travolgendo un po' tutto (pattumiera, detersivo, paletta...). Qualcosa fa "splash!" e dal secchio esce bellamente una discreta quantità d'acqua. Io la tiro su immediatamente, chiedendomi con un certo stupore misto ad incredulità cosa mai avrà causato quello spostamento di masse idriche. Ma, troppo presa dal mio fervore detergente, purtroppo soprassiedo.
Ad un tratto (dieci minuti dopo) odo la mia allegra suoneria Nokia Brimful cinguettare. Porto una mano alla chiappa, ma il telefono non sta più lì. Con sgomento comincio a guardarmi attorno (magari inconsapevolmente l'ho riposizionato) e scopro con orrore che il trillo pare sopraggiungere dalle recondità della terra o dall'interno di un armadio saturo di coperte.
Insomma, non serve che vi dica altro.
Dopo una sommaria asciugatura a secco, ho proceduto con lo smontaggio e una raffinatissima phonatura. Ma il mio display continuava ad apparire variegato ed iridescente. Inoltre il telefono, come dotato di vita propria, seguitava ad accendersi e spegnersi a suo piacere.
Quindi ora giace in un sacchetto pieno di riso. Mi fa male proprio vederlo così, aperto e sviscerato, privo della forza vitale necessaria a produrre il suo lieto e whatsappante ti-tin.
Ogni tanto lo estraggo e gli sorrido dolcemente. Secondo me, ce la farà.

giovedì 3 dicembre 2015

Imbattibile


Eccomi, sono qui.
Stavo cercando l'abito giusto quando sei arrivato, e tutto era troppo stretto, troppo corto, troppo cangiante, troppo pesante. Stavo lì nuda, e avevo un gran freddo, ma continuavo a rovistare. Poi mi sono voltata e ti ho visto, lungo lungo, vestito di celeste. Uno sorride a pensarlo, che si possa arrivare così celesti e dritti, come i principi delle storie. Io la corona l'avevo buttata da un pezzo e pure le scarpette di cristallo. Nell'indifferenziata. E stavo provando a salvarmi, senza cavalli bianchi.
Pensavo che se proprio mi fosse toccato di amare, dovevo farlo in grande. Se avessi ancora amato, volevo un posto, nella vita di qualcuno, dove ero imbattibile. Una guerriera innamorata e scalza.
Insomma abbiamo fumato una sigaretta, in terra straniera, dove la birra sa di grano biondo. Ti ricordi quanto era bello raccontarsi? Bello, bello da piangere. Tu senza un abbraccio, io senza più braccia. In un niente ci siamo dati fiato e bocca e sogni, in un niente. Mi hai preso la testa fra le mani, hai detto "sei la vita mia".
Eccomi, io sono sempre qui, la stessa guerriera scalza, e nuda ancora. Qui ad offrirti l'ultima Marlboro e l'ultimo respiro, finchè ne avrò.

sabato 28 novembre 2015

Sane regressioni

Ora. Che alle 20.35 io mi piazzi sul divano per la mia dose quotidiana di Masha e Orso, ha forse qualcosa di anomalo? Non so, me lo chiedo.
E' che alla fine di una giornata densa (cazzo, che densa) ho bisogno di fluidità. Roba da staccare la spina, tipo Abito da sposa cercasi o Ginnaste, vite parallele. Tazza di tè e gambe allungate.
Ma sotto i miei monti, nella casetta a colori, l'etere ossigenato seleziona a suo piacimento improbabili western anni '70 o soporifere interviste in bianco e nero.
Rai Yoyo invece, si vede una meraviglia. Così una sera mi si allarga sullo schermo il testone buono e peloso di Orso. Quegli occhi rassegnati da vittima predestinata, la mole massiccia e pesante.


E poi arriva Masha. Piccola da stare in una mano, bella e incontenibile. Quanto Orso apprezza la solitudine, il silenzio, il dolce e appagante piacere dei piccoli gesti (leggere, far parole crociate, spillare tè fumante dal samovar, pescare, dipingere), tanto Masha cerca buona compagnia, e gode nel condividere, investendo ogni cosa di energia esplosiva e dirompente.


Insieme, quei due, sono uno spettacolo. Orso che prova a star tranquillo, a godersi un buon libro, e Masha invadente, ingombrante, che in pochi minuti rovescia il mondo di Orso, portando infiniti crucci e immense gioie.


La mia convulsa giornata, a ben guardare, è costellata da lievi opportunità per sorridere. Il biscotto nel caffè a colazione, un bacio di buongiorno al dentifricio, radio Deejay nel tragitto casa-scuola, la panchina delle maestre al sole durante la ricreazione.
Insomma grazie Orso. E grazie Masha. A Babbo Natale chiedo la tazza, sempre se gli gnomi la trovano.


martedì 24 novembre 2015

E' arrivata

Domenica è arrivata la neve. Anche in basso, sui monti davanti a casa, tutto era spolverato.
Nel pomeriggio siamo andati a fotografare quel presepe, in Valle. Una capra rossiccia ci ha seguiti fedelmente lungo il sentiero, qualcosa intorno crepitava leggero e lui era felice, che gli brillavano gli occhi, che gli si inceppavano le parole.






































Capisco quella commozione. Me la regala il primo sentore di mare, che sussurrando mi promette il suo abbraccio tiepido, e salato.
Inverno ed estate. Distesa bianca e distesa blu.
Siamo così.

martedì 17 novembre 2015

La mia giornata della memoria


Ci aveva chiesto di chiamarlo per nome. Marco.
Eravamo tutti innamorati di lui, indistintamente. Che quando un prof arriva in classe e dice candido "odio insegnare, ma ho bisogno di mangiare. Quindi, visto che ho accettato l'incarico, farò del mio meglio", puoi solo star lì appeso come un pesce all'amo. Muti. Noi, che eravamo sempre a polemizzare su tutto.
Nel giro di qualche giorno Marco ci conquistò col suo sguardo bello e fresco sulle cose, con le sue letture declamate ed enfatiche, con la poesia che metteva in ogni gesto. Il miglior insegnante che abbia mai avuto.
Marco era uno storico, uno studioso. Passava i suoi pomeriggi all'Istituto per la storia del movimento di liberazione, setacciando archivi e biblioteche.
Un giorno, all'uscita di scuola, propose ad alcuni di noi un lavoro. Avremmo dovuto intervistare gli ultimi, fra triestini e sloveni, deportati dai tedeschi per crimini politici. Gente di ottanta, novant'anni, che non ne poteva più di ricordare e riesumare.
Accettai. Salivo su in Carso con il registratore nella tracolla, vestita come si conviene, discreta, riguardosa.
Mi offrivano caffè, biscotti al burro, limonata, ed era sempre difficile iniziare l'intervista. Andavano ore.
Conobbi un reduce con gli occhi celesti, che si era salvato grazie al suo trombone.
Una donna piccola e magrissima, sopravvissuta al campo con un bimbo nella pancia.
Spesso si finiva per andare oltre, oltre l'intervista, oltre la deportazione e il dolore. E si parlava di figli, d'amore, vita e ricette. Mi facevano raccomandazioni, mi davano consigli.
Una sera d'inverno, seduta nel salotto di una bellissima signora elegante ed eretta, scrissi sul mio notes: 
Dopo la prigionia capii che non ero più capace di amare. Amavo male, a dismisura. Allora cominciai a tradire, per distogliermi da quel troppo, per raccontarmi che era poco. Per distribuirlo, perchè quel sentire non facesse paura. Sono sopravvissuta a decine di compagni e compagne, ma non al dolore per aver ingannato l'unico che abbia amato.
Quando uscii, e la salutai, si scusò. Perchè ero ancora troppo piccola, disse, per il suo troppo.

venerdì 13 novembre 2015

Vi auguro


Un giorno me ne andrò. Vorrei tu fossi l'ultima cosa terrena che la mia mano cercherà.

Figli, vi auguro di amare. Anzi, di Amare.
Non è detto che vi capiti nella vita, di Amare. Si può voler bene, molto bene, e anche amare. Ma soltanto Amare apre la nostra trama, la scuce e la ricuce, tessendo nuovi fili. E non parlo di negare se stessi per amore, o perdersi. Solo di lasciarsi trafiggere. Dalla dolcezza, dal languore, dalla gioia, dal tormento. Senza riserve.
Non importa se chi Amerete vi corrisponderà con eguale intensità o abbandono o stupore. E' l'atto di Amare che spalanca ed espande, che rende permeabili. Che trasforma.
Lo so bene, è opinabile. Vi diranno che niente e nessuno merita tanto. Che a niente e nessuno dovreste offrire il ventre, la gola, le mani aperte. Eppure io penso che non ci sia Amore senza resa. Che le riserve, le uscite di emergenza, i paracaduti, siano pallide espressioni dell'amore che la paura impone. 
Poi, se arriva il momento di scendere, voi scendete. Mettete in valigia tutto l'Amore che siete e i gli occhi nudi e le mani aperte. Perchè è roba vostra, vi resta dentro, e addosso, nessuno ve la può strappare via.
Dimenticavo un'ultima raccomandazione. Tocca che vi Amiate, ma da morire, per Amare.

giovedì 5 novembre 2015

Pensieri spettinati

Il mio fine settimana inizia di venerdì, ore 13-13.30. Sempre stato così, che andassi a scuola, all'università, o che lavorassi. Verso mezzogiorno comincio a sentire quel brividino pre-vacanziero e mi scatta un sorriso ebete senza ma e senza se.
Da qualche anno la sento meno questa cosa. Sarà che il mio lavoro mi piace, che a scuola sto bene, che le colleghe sono prima di tutto amiche. Non so. Fattostà che a volte realizzo di essere nel fine settimana solo il venerdì sera. E allora ecco che zac!, parte il sorriso.
Che poi non son mai stata una da seratona disco o da tour compulsivo di locali. Neanche a vent'anni. Piuttosto mi è sempre piaciuta da matti l'idea di poter disporre di tempo, molto tempo, ore ed ore da gestire a mio piacimento. 
E le pulizie grosse? E la spesa? E il cambio stagionale degli armadi? Sgombrata la coscienza da un vaghissimo senso di colpa (facilmente tacitato sprimacciando qualche cuscino e, che ne so, pulendo il forno, che fa sempre grande impressione) ho sempre scelto di riposare, leggere, scrivere, fare cose con le mani. C'è stato il tempo del cucito e quello delle torte soffici. La stagione dei film francesi e quella delle tracolle patchwork. Attività piuttosto casalinghe ma operose, insomma. 
Ora mi stana l'amore smisurato per il cammino: la danza dei piedi sui sassi, il dolce saggiare la terra, alla quale consegno fiduciosa i miei passi.


Pensavo l'altra sera all'uomo che arrivò a casa nostra dopo la separazione dei miei genitori. Dopo l'uscita di scena di mio padre, insomma.
Non mi piaceva, com'è ovvio, e mi pareva vecchio, troppo vecchio per la mia giovane e bella mamma.
Paolo era però un brav'uomo, e nel contempo un personaggio. Uno dei principali studiosi italiani di psicologia della Gestalt. Non solo l'ho trovato su Wikipedia, ma ho pure riletto un articolo del Corriere, firmato da Claudio Magris, suo carissimo amico, che lo ricordava qualche giorno dopo la sua scomparsa. Era una persona coltissima, docente universitario ed eclettico musicista.
Ebbene, quest'uomo di spessore si presentava come l'ultimo dei grigi topi da biblioteca. Umile fra gli umili, piccolo fra i piccoli.
Quando la sera arrivava stanco di parole, era la semplicità di quell'androne da casa popolare, che apprezzava. Erano l'odore di minestra, i miei compiti di geografia, la coda di cavallo di mamma, a regalargli un sorriso grato.
Appena giro l'angolo ed imbocco la via, guardo in altro, al terzo piano. C'è questa luce accesa, in cucina, e so che qualcuno mi aspetta. E' felicità.
Diceva così.

mercoledì 28 ottobre 2015

Intorno

È che ovunque ti volti ci sono storie da raccontare. Te lo chiedono, lo pretendono proprio, che tu dia loro spazio. Ma io non ho mai tempo, e restano lì a boccheggiare come pesci muti.
Per esempio.

A colazione ho mangiato pane e burro. Mentre lasciavo traccia dei miei incisivi sulla gialla superficie profumata, pensavo a quella donna bionda e minuta che in cima a tutto sta, con le sue vacche grasse e la ricotta al fumo. Ora deve scendere a valle, e dice amara è finita la vacanza. Come se mungere alle cinque del mattino, pulire la stalla, far su il fieno, avesse un sapore feriale.
Sarà per questo che il burro comprato lassù, nella carta oleata, mi procura un piacere tutto fisico, da chiudere gli occhi.



Domenica in Slovenia abbiamo infilato una vecchia strada, forse cosacca. Il sentiero andava regolare e dolce, un tornante via l'altro. Giù di sotto l'Isonzo celeste, l'auto piccina, gli aceri gialli.
Cammina cammina ci si è parato di fronte un cancello basso, di legno, a tagliare il sentiero. L'abbiamo aperto, siamo passati oltre. Al di là, ogni cosa pareva chinarsi disciplinata e docile ad una mano amorevole, ma inflessibile. Fronde curate, il serpente regolare delle foglie rosse rastrellate, i piccoli covoni tondi d'erba secca, la legna affastellata per lunghezza, diametro, spessore.
Una traccia invitava a calarsi appena, attraverso il prato e l'abbiamo seguita. Un ruscello, un ciliegio possente e scuro, poche arnie colorate. Piccoli fruscii, schiocchi: si avanzava cauti, pieni di rispetto. Ed ecco più sotto la casina: storta, minuscola, ma così forte e primitiva che pareva aver radici.
Dove si nascondeva la maga, la guaritrice, quella Baba Jaga che ovunque aveva lasciato segni e tracce e tocchi? Da dove ci stava osservando?
Silenziosi, leggeri, abbiamo detto cose con le mani, gli occhi, con il sorriso. Che bel posto, non vorrei andar più via. Neanch'io. La senti quest'aria fine e dolce? Stiamo ancora un po'. Sì, ancora un po'.



Ieri sono finalmente andata a Trieste, per vedere la nonna.
La casa di riposo, per quanto possibile, mi è parsa un luogo umano, ricco.
Ma lo stesso Amelia lì dentro è spaventata, piccola. Lei, che non aveva paura di nulla. Abbiamo provato a far finta che tutto fosse come prima.
La mamma mi preoccupa di più, ha gli occhi tristi. Troppo pesante il carico di questa scelta, troppo duro da portare così, tutta sola.
Seduta accanto alla nonna, ho visto mondi di storie passare. E ogni volta provavo ad immaginare a quale passo avessero attraversato il mondo quelle anime bianche, che di colore erano state.

lunedì 19 ottobre 2015

Il coraggio della gioia


Nell'età delle commozioni il cuore non basta a reggere la spinta del sangue.
(Erri De Luca)

Sono stata in questo posto gialloarancione, e non volevo più tornare.
C'era una casina sulla piana, e lì sarei rimasta, col fuoco acceso. Chi vuole un piatto di minestra calda, un dolce sonno, una sigaretta condivisa nel portico, lì mi raggiunga.
Sono cresciuta, non so proprio dove sia finita la maestra magra magra, sfuggente, ferita dalla luce. 
Ma ci sono momenti in cui le cose del mondo mi paiono ancora troppo acute, mordaci. In cui amare (nel senso suo più ampio) mi rende così meravigliosamente morbida e così paurosamente esposta da farmi pensare che forse dovevo esser monaca. E magari bestemmio, ma amare un Cristo in croce sa di fuga, resa, sa di paura. Piange quel Cristo, grida? Racconta, esce di casa (tornerà?), spezza il pane e te lo porge? Ride, ti tocca le cosce, respira fiato caldo sul tuo seno?
Troppo facile. Ci vuole fegato, per darsi alla vita.

giovedì 15 ottobre 2015

Chi sei?


"Ma alla fine, tu, sapresti dire cosa davvero ti appartiene?"
Me lo chiedeva tempo fa una persona cara.
Si riferiva al fatto che per diverse stagioni della mia vita ho fatto le "cose che andavano fatte". Da brava. Ossia, mi sono infilata negli abiti giusti, quelli che pensavo si addicessero al ruolo. Se fai la brava mamma indossi maglie accollate. Discorri di pannolini e latte in polvere. Prepari biscotti con lo zucchero di canna. La domenica vai a pranzo dalla suocera che prepara le lasagne.
Quegli abiti erano della misura sbagliata, ma lo so adesso.
Insomma questa amica mi chiedeva se spogliandomi avevo poi recuperato i miei, di vestiti. E voleva sapere com'erano e che vezzi o colori avevano, e quanto bene mi stavano addosso. Voleva invitarmi a capire quali scelte, parole, gesti del tempo andato volevo conservare. Quali invece proprio non mi erano mai assomigliati. E quali adesso si andavano schiudendo, nuovi. 
Adesso posso rispondere. 

Conservo:
- il piacere smisurato di scritture pigre e languide dentro giornate piovose al sapor di bergamotto
- la voglia postprandiale di cinema che strugge: sala deserta, lacrime e popcorn
- la passione per le Storie Umane
- cucinare d'inverno, radio che canta, un bicchiere di vino bianco
- l'emozione profonda, dolce e bambina di quattro bracciate nel mare caldo, quando fa sera
- la mia parte giocosa, irriverente, leggera, il mio bisogno di allegria, danze, cuscinate e boccacce
- il piacere del fare operoso, del muovere lesta le mani
- la curiosità verso vie e vicoli, androni e scale, stanze e soffitte
- insegnare, che vuol dire lasciar traccia (e permettere che altri mi segnino) 
- fermare un attimo per non dimenticarlo: inquadrare, scattare, disegnare, cercar parole
- le amiche di sempre
- una simpatia per le piazze pedonali, per i luoghi del passaggio lento, in cui sedersi a sorseggiare qualcosa, indovinando vite
- l'inclinazione a vedere oltre ciò che appare
- la propensione alle carezze

Ho scoperto:
- la gioia dell'amor carnale, farcito di parole ruvide e carezze morbide; spazio che più terreno e più mistico non si può, luogo della fusione e del riconoscimento in cui tutto perdo e tutto trovo
- la rabbia, quel sano dire la mia parte incazzata
- salire: la danza dei piedi sui sassi, il dolce saggiare la terra, alla quale consegno fiduciosa i miei passi
- la curiosità dell'andare, la voglia di esplorare, il viaggio come insieme di infiniti mondi
- la bellezza della geografia fisica, in cui cose, orizzonti e cieli hanno sempre un nome
- la mia interezza, il mio involucro, le cure meravigliose che so offrirmi, generosamente

sabato 10 ottobre 2015

Kafka e la mia leggerezza


E' successo qualcosa, qualcosa di grosso. Non mi è chiaro di cosa si tratti, so soltanto che devo rincasare prima possibile, prima che la situazione degeneri. Il cielo è di piombo e cenere. La città che attraverso quasi correndo nel parapiglia generale, è austera, solenne, mi ricorda qualche capitale dell'est Europa, che peraltro io non ho mai visto.
Chi non abbandona il suo alloggio si rintana, e sbarra porte e finestre.
Mi è chiaro che quando avrò raggiunto casa sarò al sicuro, in un abbraccio caldo e protettivo. Devo solo arrivarci e nulla potrà più farmi paura.
Salgo le scale a balzi, ho l'urgenza di sapere che i miei cari stanno bene. Divido queste stanze con una donna più grande e diversi bambini, ma non sono figli nostri. E' un sollievo enorme, passando la soglia, scoprire che nulla ha turbato la loro pace.

La popolazione vive reclusa. Per le strade circola una sorta di vigilanza armata, repressiva, feroce. Il trucco per evitare il loro intervento arbitrario, sadico e punitivo, è passare inosservati. Chi è proprio costretto ad uscire cammina rasente muro, il capo coperto, gli occhi bassi. E' consigliabile vestirsi di scuro e si prediligono abiti severi, luttuosi e di vecchia fattura: lunghe palandrane, ampi mantelli. Ma è come se sotto, sotto ogni copertura grigia da ratto in fuga, potessi vedere i cuori rossi, pulsanti e vivi.

Esco di casa, tengo uno dei bambini per mano. Sa che non deve parlare, sa che deve sembrare trasparente. Andiamo rapidi verso qualcosa, è buio, urtiamo altri corpi chini, altre spalle richiuse. Ma si va avanti tattenendo il fiato. Fiuto la presenza della polizia, la percepisco ad ogni svolta, in ogni androne, lungo tutto il percorso. Però cammino serena, non ho paura e tengo stretta la piccola mano calda nella mia.
Giunti davanti ad un portone ci fermiamo e ci guardiamo attorno. Io cerco un nome fra i campanelli e suono, poi attendo. Risponde al citofono una voce di donna lontanissima e flebile (chissà perchè so che si tratta della "professoressa di grammatica"). Concitata e rapida le spiego che deve uscire, che deve partecipare, che la resistenza siamo noi, che non può esimersi. Lei si dichiara infreddolita e stanca (la legna scarseggia ovunque), dice che ha rinunciato persino ad andare a scuola, tanta fatica le costa ogni gesto.
La saluto, torno sui miei passi e la mano del bambino è sempre lì.
Percepisco le gambe svelte sotto la gonna pesante, e sono sciolte, agili, godo del loro andare leggero e del mio corpo tutto, che le accompagna.
Cammino e penso, penso a cosa potrò fare per stanare e portar fuori altre anime, per salvare altre esistenze. Ma sento, sento forte che ce la faremo, non ho nessun dubbio, nessuna incertezza.
Arriviamo a casa e ci inonda una luce calda e odore di buon cibo e voci argentine. 
Saluto, abbasso il pesante cappuccio, sorrido.

P.s. Al risveglio avevo bene in mente il palazzo in cui la mia "professoressa di grammatica" viveva. Così ho googlato palazzi europa est. L'ho trovato quasi subito. L'immagine mi ha portato al nome: palazzo Kinsky. Wikipedia dice che: tale costruzione alla fine del XIX secolo ospitava una Scuola di grammatica tedesca, frequentata tra il 1893 e il 1901 da Franz Kafka. 
Proprio lui. Che con i sogni, aveva una certa dimestichezza.

martedì 6 ottobre 2015

Alla mia ex alunna, che cresce bella e forte


Verbi e aggettivi
Mi pare un secolo, invece no.
Gli avevo mandato una foto. Indossavo un vestito chiaro e leggero, i capelli erano sciolti e portavo quegli occhi inconsapevoli che ho dismesso da tempo. Si cresce, del resto.
Lui disse che emanavo luce, ma ci tenne a sottolineare che i braccialetti di cui facevo sfoggio erano troppi. 
Troppi. Troppi per chi? Non certo per me, che li avevo scelti ed acquistati con cognizione di causa.
Troppi per lui, per il suo insindacabile giudizio?
Ecco, diffida piccola. Diffida quando sottilmente, elegantemente, velatamente, ti si dice cosa dovresti essere. Quali scarpe sarebbero perfette, quale colore (non certo quello che abitualmente scegli) ti esalta l'incarnato, come saresti intrigante se optassi per un balconcino di pizzo.
Come dire sei magnifica, ma al condizionale.

Intuizioni
Quando un pomeriggio di fine marzo dissi ridendo al padre dei miei figli "ma non sarà che si è presa una cotta per te?", già sapevo tutto. Ma non volevo vedere. Da tempo era stanco, ombroso. Il lavoro che non andava, la casa troppo stretta, un peso a cui non sapeva dar nome. Così diceva. Invece un nome c'era, eccome.
Non recrimino, anzi. Posso solo ringraziare, e lo farò fin che campo. Si è preso la briga di scoperchiare, ma non eravamo ancora pronti.
Non recrimino, tutt'altro. Poco importa se (come disse) non avevano scopato, se feci di tutto per cancellare il segno e rimetter su la faccia di sempre.
Poco importa se poi persi la direzione e finii a menar fendenti alla cieca, brutalmente, e senza decenza. Biancaneve diventa la regina Grimilde, occhi bistrati e nero vestita.
Dalla perfezione, stai lontana bimba. Diffida del lustro, della stabilità, del sorriso sempre e comunque.

E ora, sono pronta a salutarti davvero.

venerdì 2 ottobre 2015

Il luogo delle cose


E spazi che non mi erano intimi, o familiari, lo sono diventati. Ho aperto valigie dalle quali ho estratto ogni tempo del passato: prossimo, remoto, assai imperfetto. Ho disposto accuratamente le cose mie, che all'inizio tendevano a remar contro. Portavano ancora la forma dei luoghi andati. Ma dando loro tempo, mostrando noncuranza, hanno trovato dimora. Affiancate ad altre cose, dalla forma sconosciuta, hanno mischiato odori, storie, colori.
Pippi Calzelunghe, compagna di scorribande a dorso di cavallo, si è trovata a dividere i suoi giorni con giovani ed intrepidi alpinisti. Ne è parsa soddisfatta.
Da quel momento abbiamo avanzato a pas de deux e pigiato tasti bianchi e neri a quattro mani. Sono giunti la tovaglia svedese, il cardo montano, il miele sloveno, l'orso col cappello, un puzzle di legno costosissimo al quale però sarebbe stato un delitto rinunciare. Anche il pentolino rosso, che ci aspettava da tempo immemore in quella cucina senza tetto, ha preso posto.
L'altra sera si parlava, e ti chiedevi se quando si ama davvero viene tutto fluente, facile. Io ho risposto che non so, che forse non è così. Quando si ama davvero si guarda all'altro come fosse Altro e Sè assieme. Per farlo, tocca credere profondamente che Mariacher possa calarsi dall'ultima mensola della libreria bianca, passando attraverso una schiera di galline. E davvero, non c'è nulla di facile in questo.

giovedì 24 settembre 2015

Pensa grande


Noi appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romanzesco.
...fedeli alla sfida romantica, ci arrischieremo a lasciarci ispirare da parole grosse, preferendole alle parolette riduttive. Perchè non è bene sminuire ciò che non si comprende.

Ho sempre pensato che le parole facessero la differenza.
Una traversata non è un passaggio.
Il fervore non è entusiasmo.
Penetrare non significa entrare.
Le parole tocca sceglierle con cura: rendono epico un viaggio, languido uno sguardo, inebriante un canto. Trasformano le cose fuori, poi dentro.
E con questo non voglio dire che le crepe vanno celate o la polvere ammucchiata sotto il tappeto. Non parlo di strati di vernice a coprire la ruggine. No. Parlo di render giustizia alla bellezza, di scovarla, stanarla, offrirle servigi. Metterle a disposizione le migliori parole, quelle dimenticate, antiche, quelle del sogno, della leggenda.
Il creato dona ad ognuno infiniti luoghi e volti e strade. Melodie struggenti, pagine scritte colme di intuizioni, scorci ignorati che chiedono di essere colti.
Sta a noi vedere. Sta a noi portar dentro. A noi sta scrivere la nostra biografia pescando parole perdute e straordinarie.

sabato 19 settembre 2015

Naufragar m'è dolce


"Gioia", mi dice, "bisogna imparare a pararsi il culo".
Pararsi il culo. Che non significa farsi i cazzi propri, dribblare con astuzia, studiare le mosse migliori. No. Vuol dire stare in quel mare ad occhi aperti, difendersi, proteggersi, evitare di esporre le parti molli, ingenuamente. Alzare la guardia, insomma.
Eppure fatico a digerirlo. Fatico ad impormi un qualsivoglia scudo in relazioni e contesti che mi vorrebbero invece a nuotare nuda, fra gli ignudi.
Le soluzioni (per me) restano due:
1) Resto in acqua senza protezione: sviscerata, vulnerabile e fiera di esserlo, ma consapevole che in potrei essere essere trafitta a morte. 
2) Riemergo prima possibile e cambio mare. 
Ecco, la via di mezzo non la contemplo. Soprattutto se c'è stato un tempo in cui a quelle acque mi sono affidata con gioia, le membra dolcemente abbandonate.

Esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo. Esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d'essere. Il mondo, in qualche modo, vuole che io esista; ciascuno è responsabile davanti a un'immagine innata, i cui contorni va riempiendo nella propria biografia.
(J. Hillman)

Post criptico, lo so. Ma tranqui amici, va tutto molto bene  :))

domenica 13 settembre 2015

Post di fine estate

Penso troppo. Ma non credo di poter scegliere.
L'abitudine a pensare, immaginare, creare scenari, ipotizzare, ha per me radici profonde, e non banali. Cosa fa una bimba nel suo appartamento scatoletta, dentro un condominio scatoletta, nei lunghi e solitari pomeriggi invernali spazzati dalla bora? Prima di tutto si dice che la solitudine non fa per lei, e che non appena potrà farlo si attornierà di voci e parole e canzoni e abbracci e gente in movimento.
Poi immagina. Diciamo che sciala con l'immaginazione, che si concede il bis, il tris e pure la replica.
Allora devo solo gestirmela questa cosa un po' bella è un po' brutta che mi è stata data in sorte, amministrarla, per come posso.

In questi giorni ho compiuto gli anni e il mio pianeta ha visto l'alternarsi di eventi assai potenti. Ogni pianeta che si rispetti, quando evolve, scassa e sposta e rovescia.
La mia mamma è stata costretta a trovare una casa di riposo per la nonna, che giunta a 96 anni necessiterebbe di due badanti full time. Amelia è lucida, anche troppo, e questo non giova affatto.
Qualche giorno prima del ricovero l'ho chiamata: le era ben chiaro che non si poteva fare diversamente, che non c'erano alternative (ogni possibilità è stata soppesata, valutata, simulata sulla carta), ma ancora provava a dire che non voleva lasciare casa sua, le cose sue. Mi chiedeva di esprimere un pensiero in merito, di schierarmi.
E così, da giovedì la nonna piange di nostalgia in una stanzetta anonima che divide con altre nostalgie, e conserva quel che resta della sua vita in un armadietto largo quaranta centimetri. La mamma, ovviamente, piange insieme a lei.

Poi sono stata a trovare il mio mare per l'ultimo bagno, che poi non si è fatto perchè tirava un'aria fresca proprio. Ma era un luogo così bello, così incredibilmente bello nella prima luce autunnale (lo so, non è ancora autunno, ma la luce già muta) da riempirmi sporte e sporte di provviste, per il tempo grigio e freddo che verrà.
Con le biciclette abbiamo corso un anello (sali-scendi-salisalisalisali-scendi-sali) che ci ha condotti a questo posto:


E sulla strada del ritorno c'è stato un incidente da spavento, ed è andata male, ma non malissimo come poteva se Lui non avesse indossato il casco. Clavicola rotta e fermo trenta giorni, che per uno mai fermo è la vera condanna. Così posso abbracciarlo solo poco poco.

Nota luminosa: nonostante tutto abbiamo deciso di dare la festa di compleanno danzante, ma senza le danze. Eravamo una ventina nel pratino sotto le stelle, e il Prosecco andava giù, e le bimbe correvano, e ovunque mi voltassi c'era qualcuno di cui so davvero, e che davvero sa di me.

Domani è lunedì, si torna a scuola.

domenica 30 agosto 2015

E salirò, salirò, salirò, fino a quando sarò solamente un puntino lontano (D. Silvestri)


Insomma finalmente l'ho vista. La Valle dei Sette Laghi. 
No no, non è l'attacco di un'altra favola, solo un posto verissimo, che attraversi coi piedi, e anche con gli occhi, però senza parlare tanto, che di fiato te ne resta poco.
Siamo saliti un po' immusoniti: nella vita si litiga, a volte. Meno male, mi vien da dire, perchè mamma e papà mai uno screzio, un'alzata di voce, ed è successo di tutto. Mucchi di scheletri dentro gli armadi. Allora penso che scontrarsi qualche volta, e poi dirsi, e poi abbracciarsi, vada proprio bene, che non siamo qualcosa da calzare senza pieghe. Qui abbondiamo, là stringiamo, ma addosso ci si aggiusta un poco e alla fine si sta da dio, come nel vestito della festa.
Allora su su su, prima dentro il bosco con quei massi enormi, scesi chissà quando, e faggi maestri piantati nella terra rossa. Poi a metà strada il tuffo nel mare bianco dei sassi, sotto le schiene erette o ricurve di monti battezzati dalle tempeste: Kanjavec, Vrsac, Mojstrovka.
Millequattrocento metri di dislivello, cazzo se ci tengo a dirlo. Come i bambini che fanno a gara quando trattengono il fiato. Io trenta secondi, io quaranta, io sessanta. Io millequattrocento abbondanti, e non mi parevano davvero così tanti. Questo mi piace.
La Claudia, che mi conosce da quando avevo undici anni, se la rideva l'altra sera. Da un bel po' non ci si vedeva. "Tu sportiva? Non ci posso credere".
Sportiva io. No, non lo sono affatto. Perchè dello sportivo mi manca il metodo, la pratica costante, il pensiero strutturato. Io vado su, vado perchè mi piace, vado perchè qualcosa mi chiama, vado piena di emozione e a ogni curva del sentiero tutto si spalanca, emerge, si apre. 
Volevo dirle questo, ma non è facile. Allora costruirò un pop up, magari si capisce meglio.

Ecco, io sono quella col vestito giallo. Quella che sale e canta.

martedì 25 agosto 2015

La Domanda

L

E si aprirono i cancelli. 
Da tutti i regni giunsero fanciulle in fiore, per incontrare il Principe della Vetta: carovane e portantine, carrozze e cammelli, baldacchini e convogli. Passava voce che una di loro, dalla pelle d'ebano, avesse viaggiato da solstizio a solstizio sul dorso di un pachiderma.
Ogni tornante della strada impervia e serpeggiante che conduceva al castello, era ingombro di carri, ancelle, schiavi, bestie, che bivaccavano in attesa del gran giorno. Anche dalla piana si potevano scorgere lucenti vesti orientali, colbacchi candidi, corone di fiori intrecciati, e udire musiche struggenti e dolcissime, capaci di ridurre al pianto il più ardito paladino.
"Come i chicchi di tre melagrane", dichiarò una guardia reale vantandosi di averle contate tutte, quelle spose promesse.
Nelle cucine del castello, donne in carne dai seni bianchi parlavano fra loro, spennando tacchini ben sazi e farcendo lepri svelte, tradite dalla luna.
"Non è più lui", disse la serva anziana che sceglieva personalmente per il Signore i pomi più dolci dal frutteto reale, "i suoi occhi sono d'acqua stagna".
"Non si è più ripreso", sentenziò l'addetta alle provvigioni di sale rosa.
La sguattera giovane, graziata da sonni pesanti e colmi di sogni infantili, sospirò. "Raccontaci ancora di quel giorno, Nunzia".
Accadde quando i fiocchi della prima neve annunciarono il lungo inverno della Vetta. Capitava così, da un giorno all'altro: il cielo si faceva ardesia e un'aria secca di ghiaccio, a cavallo della tramontana, trascinava via novembre e il suo sentore di foglie.
Accadde quando il Principe, affacciato al tubinio lieve, ai coppi rossi che andavano scomparendo sotto i suoi occhi, li vide. Nei pressi del pozzo, un uomo e una donna a capo scoperto sedevano affiancandosi, composti. I due servitori, che il Principe ben conosceva, e a ai quali forse aveva rivolto brevi cenni col capo o impartito distratti ordini, parlavano sfiorandosi le mani, mentre tutto il gran fioccare bagnava loro le vesti. A quella distanza non poteva udire le parole, ma s'incantò dei gesti, delle espressioni, della bellezza che ogni cosa pronunciata generava, trasfigurando volti e corpi.
Allora scese, scese quasi mille gradini nel tempo di un battito di ciglia, per interrogarli subito, per sapere quale suono e consistenza e timbro avessero quelle parole non udite. Quando giunse al pozzo, dei due amanti non v'era più nessuna traccia.
Il principe li cercò ovunque fino a tarda notte, attraversando ogni salone, dormitorio, magazzino. Chiamò le guardie, convocò i suoi uomini, descrisse i due alla servitù. Il mattino seguente, qualcuno al villaggio disse di averli visti scendere lentamente la china, diretti al luogo da cui ogni convoglio partiva.
"Da quel giorno", chiuse Nunzia sbucciando una patata, "il Principe non si dà pace. Si tormenta e mormora nel sonno, che a lui non è mai stato dato di sentire parole come quelle, carezze costruite dalla lingua e dal palato".
La giovane serva sospirò nuovamente, e non fece in tempo a dire che una sguattera guercia le mise fra le mani un cesto di grosse lumache da spurgare. "Avanti, ora si lavora bellina!"
L'araldo, giù in piazza d'armi, invocava ora un nome ora l'altro: nomi lunghissimi di spezie e danze, nomi asciutti e freddi di spazi siderali, immacolati.
Una ad una le fanciulle si inchinarono al cospetto del Principe, mostrando bellezze e talenti. Odalische falene e cantrici di tarab, ricamatrici Chuan e amazzoni che d'oro avevano occhi, pelle, chiome.
Il Principe, abbandonato su uno scranno, assisteva distratto a quella malia di colori, volteggi, lusinghe, in attesa che ogni esibizione avesse fine e fosse posta la Domanda.
Lì si faceva attento, proteso, vigile, rizzava la schiena.
"Ora ditemi, cos'è l'amore?"
La giovane di turno, ancora tesa nello sforzo, il petto ansante, volgeva allora lo sguardo attorno, in un muto appello alla moltitudine di figure devote che si stringevano al sovrano. Un paggio si aggiustava il panciotto, una guardia reale saggiava la sua lancia, una seva solerte nettava una macchia con l'angolo del grembiule. Parevano dire con il loro impaccio, che la risposta alla Domanda era oscura all'uomo che si piega e si china, e non conosce vezzi, languori, morbidezze. Tempo.
"Il luogo celeste in cui tutto è armonia", disse la suonatrice di cetra normanna.
"Un ramo di pesco cresciuto fra le rocce", sussurrò con voce di seta la filatrice di bozzoli.
Il Principe ascoltava, sempre adagiando il cuore ad ogni parola, sempre cullandsi nell'ottusa speranza di trovare la chiave per quell'incanto che rende creature di Dio. Ma ogni volta, ad ogni risposta, abbassava lo sguardo, scuoteva la testa, il cuore gonfio di malinconia. Alzava poi un braccio, stancamente, affichè le guardie conducessero altrove la sventurata fanciulla, che in lacrime si lasciava scortare, chiedendosi affranta dove fosse il difetto, l'inciampo, la nota stonata.
Scendeva ormai la sera. Fu annunciato l'ultimo dei nomi ed un saggio consigliere si premurò di avvertire che forse non serviva darsi la pena di affrontare quell'incontro. Una giovane cresciuta nei boschi, disse, senza arti nè estri. Che poco aveva visto, che niente conosceva.
Ma il Principe chiese di procedere, perchè ogni cosa va fatta per bene, e fino in fondo.
La minuta creatura figlia di rovi, legni e ruscelli, entrò misurando la stanza con passi piccoli e solenni. Nere le trecce austere, nero l'abito privo di ornamenti.
"Coraggio, ora cosa mostrerai al nostro Signore?", domandò il consigliere, tradendo la sua boria.
Così lei avanzò lenta, a viso alto, e nei suoi occhi chiamò gli occhi del Principe, e li tenne stretti senza lasciarli mai.
Nessuno osò fermarla, nessuno osò dire che il protocollo non prevedeva, non contemplava, non concedeva. Nel silenzio liquido galleggiava il suo fiato, che poco a poco trovò quello del Principe, lo cinse e le due gole si mossero all'unisono.
Giunta dinanzi a lui si piegò appena, con magnifica grazia, e come cogliendo l'anemone più raro e cagionevole, sollevò la mano del Principe. La tenne nuda, disarmata, il palmo verso l'alto. Poi adagio, consegnò a quella mano la sua tempia, il suo zigomo, l'angolo della sua bocca, respirando grata la sua pelle. E restò.

domenica 16 agosto 2015

Vicino lontano


- Vedi, io soffro perchè amo troppo.
- E che cazzo significa?
- Significa che nell'amore mi perdo, mi annullo, che nell'amore dimentico chi sono, cosa voglio. Io sono l'Altro, voglio i desideri dell'Altro.
- Te lo chiede l'Altro, di desiderare ciò che desidera?
-  No, però a me non riesce diversamente.
- Stronzate.
- Perchè mi dici questo? E' una sensazione dolorosa.
- Ma che brava, ti daranno il Nobel. 
- Sei cattiva...
- Hai ragione, scusa. Solo che non capisco. E non tirarmi fuori tutta la caterva di coglionate sull'infanzia infelice e la figura del padre e la paura di perdere. Preso atto che tu sei questa, che questo è il tuo passato poco roseo, prova a prendere il comando della baracca. Mica dovrai stare sotto il tavolo tutta la vita, no? Avrai il POTERE, porca puttana, di decidere cosa vuoi essere?
- Ma non esisto senza l'Altro.
- Oddio, mi fai incazzare. Ti serve l'Altro per guidare? Per trovare una strada? Ti serve l'Altro per leggere o andare al cinema? Sai cucinare il risotto agli asparagi, vero? O te lo deve dire l'Altro come si fa?
- Ma cosa c'entra questo.
- C'entra eccome. Tu sei tu. La tua storia coi mille mattoni e ricordi è solo tua. Hai sorriso, pianto, hai amato, hai viaggiato, visto cose e facce. TU le hai viste, mi capisci? TU sei quella che attraversa ogni giorno il mondo, quel sorriso è il TUO, e gli altri vedono TE non l'Altro. Ti basta?
- Non lo so, adesso basta discutere. Cosa stai leggendo? Hai sottolineato tutte le pagine.
- Un libro bello. Senti questo. Il sapere non è mai un tutto-pieno, è sempre percorso da una faglia, da una mancanza che abita il cuore. Non lo possiamo possedere, come non possiamo possedere l'altro da cui proviene. La possibilità del sapere e della parola che lo nutre è data solo quando la bocca non è piena di cibo, quando c'è silenzio sufficiente perchè essa venga ascoltata. Ecco, ora prova a sostituire la parola "sapere" con la parola "amore".
- Che meraviglia.
- Già. Ma hai capito?
- Eh, sì. Ci deve essere uno spazio fra me e l'Altro. 
- Uno spazio, esatto. Ma può essere colmo di cose belle, che si sfiorano reciprocamente, che reciprocamente sussurrano, senza però confondersi. Ci sei tu, c'è il cuscinetto tuo, quello suo, e poi c'è l'Altro.
- Mi piace.
- Bene. Non volevi fare il risotto con gli asparagi stasera? Diamoci da fare, che è ora di cena.

lunedì 10 agosto 2015

Stars



Con le coperte in spalla andiamo in quel pratino sotto i monti, che lì fa buio fitto. Figlio Piccolo, Figlio più Grande, Lui e Io. 

- Ho un sacco di desideri però.
- Io solo tre.
- Ne vedremo tante di stelle?
- Chissà, speriamo almeno una.
- Una grossa allora.
Ci mettiamo giù faccia al cielo, che quando si è distesi così si diventa proprio tutti uguali, e il corpo non porta più altezza, spessore, età.
- Quella è la stella polare, mamma?
E risponde Lui, perchè di stelle, geografie, punti cardinali, io so quel poco che mi basta. Invece Lui sa, è il mondo suo quello dei luoghi, degli spazi, delle distanze.
Figlio Piccolo parla e parla. E' fatto così, sente vibrare e vibra. Poi trova il suo posto.
Figlio Grande tace e ascolta. Anche senza luce posso vedere i suoi occhi liquidi e pieni di dolcezze, di paure, di fremiti. Non esprime, ma io capisco.
Io e Lui ci teniamo per mano sotto la coperta, Figlio Piccolo si mette tutto di traverso, con la testa sul mio petto e i piedi sulla pancia del fratello.
Poi i Figli discutono, perchè non era una stella - bugiardo, volevi solo vederne una in più - era un satellite o un aereo o chissà. Lui ride con la bocca e il cuore, lo sento, e vorrebbe qui anche sua Figlia, che dopo un po' gli manca.
Stiamo lì, un fresco d'erba che pizzica il naso. Figlio Piccolo non so come, dice che siamo una famiglia. Mi verrebbe da baciarlo, ma guasterei tutto. Perchè sappiamo che questa famiglia è frutto di perdite e lutti e tagli dolorosi. Che non è sempre facile mettere assieme ciò che è stato, chi non c'è, quello che vorremmo fosse, le cose che abbiamo in mano.
Ma in qualche modo sì, siamo una famiglia. Che si mescola, si dosa, con piccoli passi avanti e indietro.
Poi eccola la stella, attraversa tutta la volta celeste. Non ne avevo mai vista una così grande e luminosa, con la scia doppia tutta un luccicare. Una grossa, come volevamo.
- Ma era pazzesca!
- Hai espresso il desiderio? Questa vale doppio.

giovedì 6 agosto 2015

My car

Squilla il telefono, numero sconosciuto.
- Parlo con la ragazza della Ypsilon?
Dopo un attimo di incertezza (quale ragazza?) rispondo che sì, sono proprio io.
- Ciao, domani ti faccio l'auto, se vuoi è pronta per lunedì.
 Wow, ci siamo.

Un mese fa ho deciso, per cause di forza maggiore, che il vecchio Peugeot aveva i giorni contati. C'erano almeno due spie sconosciute costantemente accese e da poco avevo bucato la gomma anteriore. Quando il gommista l'aveva sostituita (con quella di scorta, ancora più consunta), dopo aver bestemmiato in idioma locale mi aveva guardata per qualche secondo con un misto fra sconcerto e ammirazione. Una survivor, praticamente. 
Inoltre, a luglio scadeva il collaudo. Il cambio era d'obbligo.

Così è iniziata la lunga ricerca di un mezzo idoneo: usato ma non troppo, a prezzo stracciato, motore solido, un minimo di garanzia. L'estetica mi interessava poco. Che se avessi i mezzi sceglierei cose di questo tipo: 


Ora, non potendo permettermi un DS Pallas bianco azzurro, prendo quel che capita, basta che duri nel tempo e presenti buona resistenza alle mia partenze sprint (sì, lo so, non lo farò più). 
Cerca che ti cerca, nel cortile di un piccolo venditore locale, vediamo questa:

  

Non sarà il Pallas, ma è carina. E costa un poco che per me è tanto, ma vale la spesa. 
Si fanno le carte, si assicura il mezzo e tutta fiera passo a ritirarla. 
La sera stessa, mentre sfreccio sulla A4, il display luminoso mi invita ad arrestare il veicolo. Avaria. 
AVARIA? Ma di cosa stiamo parlando? Ho un'auto (quasi) nuova e lustrissima e posso ascoltare la musica non a singhiozzo e l'aria condizionata funziona anche se non colpisco il cruscotto e i finestrini scendono. Eh sì, signori e signore, i finestrini scendono davvero! 
Insomma, ho questo giocattolino bellissimo, e mi dite che devo arrestarlo??? Vogliamo scherzare?

Un mese. Un mese è stata dal meccanico, che il concessionario diceva che non pagava e il vecchio proprietario diceva che doveva pagare il meccanico che l'aveva revisionata. E insomma martedì finalmente è pronta.
La ragazza della Ypsilon non vede l'ora.

lunedì 3 agosto 2015

Eredità




Mi hai deluso.
Esiste un modo più crudele, più subdolo e più efficace di colpire al cuore?
Si può dire rabbia, scontento, tristezza. Si può dire dolore, stanchezza, paura. Ma la delusione, la mancata aderenza dell'altro al nostro copione, è un dito puntato. E' come dire "sei tu che che non funzioni".
L'ho mai fatto? Ho mai puntato il dito? Certo. Lo si capisce dopo, tristemente, a posteriori.
La delusione cambia gli occhi. Li vela di malinconia, li porta lontano, li rende impietosi giudici. 
E io che pensavo tu fossi.
E io che credevo tu potessi.
E io che speravo. Volevo. Sognavo.
Così dicono gli occhi. Rovesciando sogni infranti, attese di bellezza e meraviglia. Dicono che non sei all'altezza, che non ce l'hai fatta.
Papà è sulla porta, io sto uscendo. So che mi vorrebbe snella, geniale, sportiva, brillante. Invece ha di fronte questa ragazza malinconica e morbida, che inciampa e non misura gli spazi, che passa le giornate a scrivere, mentre i suoi compagni se ne vanno al mare. Fai quello che vuoi, dice. 
Ma i suoi occhi, scappano altrove.

venerdì 31 luglio 2015

Gambe

C'è un video di me dodicenne che in calzoncini corti corro lungo la china del paesello dove si faceva vacanza con la nonna. Ho queste gambe fuscello lunghissime, cresciute dalla notte al giorno, che ancora non mi capacito e non governo a dovere. Si muovono scomposte, come le zampe di un puledro ciondolante, e sono buffa e tenera.
Poi nel giro di pochi mesi è cresciuto tutto, un poco per volta. Braccia, busto, tette. 
Intorno ai quindici anni, per la prima volta ho avuto coscienza di possedere un paio di arti inferiori il cui senso andasse oltre il deambulare.
"Cazzo, hai due gambe...", disse lui sospirando. Aveva sedici anni, e una cicca trasgressiva penzolante all'angolo della bocca. Era luglio e stavamo seduti a cavalcioni del muretto.
Io guardai giù. Due gambe, ovvio. E quindi?
Cominciai così a studiare serialmente la cosa. Scoprii incredula che esistevano gambe corte, grosse, magrissime, tozze, con la ritenzione idrica, agili, con la buccia d'arancia, bianchissime, pesanti, abbronzate, muscolose. Esistevano gambe che dicevano molto, altre assolutamente mute.
A diciassette anni salutavo la mamma in tenuta d'ordinanza: jeans, felpa e zaino in spalla. Poi passavo in cantina, sfilavo i jeans e infilavo la mini. Avavo capito un sacco di cose sulle gambe, e soprattutto andavo molto fiera delle mie. Non mi sono mai andata complessivamente a genio, mi trovavo (e mi trovo) soltanto difetti, ero (e sono) complessatissima. Ma quando mi chiedevano cosa mi piacesse di me, quale fosse ai miei occhi il pezzo da novanta, rispondevo senza indugio "le gambe!".
Ora, per capirci meglio, direi che il Gioia modello - coscia magra e polpaccio affusolato - potrebbe essere un mix fra le seguenti (per ovvie questioni di pudore, non posto le mie):


Insomma, mi ritrovo adesso a fare i conti con qualcosa di nuovo e assolutamente inconsueto per una donna adulta. Le mie gambe, benchè si conservino sempre in ottima forma (forse più toniche d'un tempo, vista l'attività di ascensione vette che mi occupa da un po') inizio a detestarle. Le nascondo, le occulto, le degno di una scarsa considerazione venata di fastidio. Perchè non le vorrei più così come sono, costituzionalmente. Se potessi per dire, cambiarle, comprerei queste:

E non serve a niente ripetermi che sul mio corpo snello e lungo stonerebbero come due decolltè rosse ai piedi di un prelato. No. Io le voglio così. Con la stessa intensità con cui una bambina di tre anni si piazza davanti al negozio di giocattoli, pestando i pugni sulla vetrina.

lunedì 27 luglio 2015

Le mie farfalle


Sono in vacanza, ma non farò a meno di scrivere dal luogo ameno in cui mi trovo. Anzi. 
Da ieri mi gira nella testa un post bello che vorrei dedicare alle amiche mie, altrettanto belle.
Il  panorama delle donne che amo è piuttosto variegato. Sono per la biodiversità, via. 
Non arrivano a dieci le mie amiche speciali e nessuna somiglia all'altra, nessuna può essere assimilata all'altra. Non viaggiano a braccetto, anche se alcune fra loro sono molto intime, al di là e al di fuori di me.
Ci siamo raccolte in tempi e luoghi così diversi, che a mappare i nostri incontri verrebbe fuori un bel Mondrian.
Quello che ci accomuna, è provare tenacemente a ritrovarci, nonostante tutto: lavoro, compagni, figli, stanchezza, distanze. A volte capita che per mesi si riesca solo a tener teso il filo di qualche rapido, estemporaneo e magro contatto: un messaggio, una mail, una telefonata rubata ai proficui e inattivi tragitti in auto (subito dopo il ritocco rimmel e subito prima della pulizia cartine sparse).
Poi, quasi miracolosa, la congiunzione. Sei libera giovedì? Anch'io! Ma verso le cinque, non prima. Perfetto, alle sei però ho piscina. Abbiamo un'ora, fantastico. Ok, passo da te. 
Che ritrovarsi e colmare il tempo è niente, bastano cinque minuti. 
Così prima della partenza per esempio, loro c'erano. Lei, seduta dietro lo sportello alla posta, tutta occhi celesti e denti bianchi, una carezza veloce e gli auguri di buon compleanno, che c'è gente in coda. L'altra mi domanda quanta ricotta ci metto, nella torta salata. Poi arriva un messaggio di buon viaggio e carezze (scrivi, leggi, riposa, scatta foto!): ho un culo da non credere.
E allora volevo dire che dovremmo tenerci strette, ecco.

mercoledì 22 luglio 2015

Nuove abitudini


E' che a volte si pensa di fare la rivoluzione menando fendenti, camminando a rovescio, trascinando disperatamente ogni cosa da sotto a sopra, da sopra a sotto. Oppure, al contrario, si crede che il Magnifico Cambiamento sia in arrivo, col treno delle tre, che a noi tocchi solo passare in stazione e al binario, allargare le braccia.
V. mi scrive che col marito ci sta riprovando. Disfare e rifare, le dico, altrimenti non va. Poi mi mordo la lingua, e fortissimo, perché questo si chiama “dispensare consigli” e io ho smesso da tempo. Ma a volte ci ricado. Lei poi mi scrive che però non vuole rinunciare a pensare che da qualche parte, in questo vasto mondo, esista qualcuno con cui potrebbe fare cose incredibilmente belle. Come scopare sul tavolo e su quello stesso tavolo mangiare spaghetti in rosso alle quattro del mattino. E viceversa. Oppure ubriacarsi dal ridere e fare indigestione di segreti sotto il piumone in una domenica fredda e pigrissima. O magari giocare all'infermiera e al malato, un po' seri e un po' impacciati, ma con bocche impazienti. Cose così. Cose che col marito non si facevano mai, che fa sorridere solo a pensarci, di mettersi lì adesso.
La capisco io, la capisco eccome. Totalmente.
Ma allora amica, cosa riprovi? E soprattutto, per chi lo fai? Provare, arrivati qui, significa trascinare questo marito sul tavolo, dopo aver spadellato con indosso soltanto il grembiule da cucina. E via avanti. Giocare d'azzardo, girar le carte come un mago, che non ti riconosci neanche più. Allora sì, vale la pena riprovare, quando sei tu a sovvertirti, quando vuoi fare la tua, di rivoluzione.
Che forse al marito piacciono un mondo le infermiere e gli spaghetti erotici e i segreti sotto il piumone. Ma se così non fosse, pazienza, tu hai detto chi sei, cosa vuoi, tu hai cercato una vita che ti corrisponde.
Perché i sogni insognabili si leggono in faccia. Io l'ho portato scritto addosso che tenevo una porta aperta sul possibile, che in quel fiero “riprovare” c'erano falle grosse, voragini che non si lasciavano colmare. 
Ed è bastato un niente.

venerdì 17 luglio 2015

Summer night


Notte d'estate, finestre aperte sulla strada. Il mondo finisce lì, la strada è chiusa, non puoi raggiungere qualcuno, qualcosa, non puoi andar di fretta. Puoi solo stare.
Oltre la strada c'è il mare, e odora, che potresti lasciarci la faccia sopra, annusare ad occhi chiusi, per dire di cosa è fatto: scafi bianchi, scorfani, pinne blu, grida di bambini, conchiglie, membra lisce di donna, meduse iridate.
Lei si sveglia, ha sete, s'alza. Con piedi leggeri e rotta indefinita raggiunge il frigorifero. Beve a sorsi piccoli affacciata alla nera notte, al nero mare, alla danza di luci in cielo e in terra.
Lui si sposta appena fra le lenzuola, la cerca, ma tiene ancora pensieri e voce nel sonno. Protende il braccio cieco, ed è un appello, un'urgenza, una resa. Senza dire, lei si allaccia a quella fune tesa nel buio e si lascia andare, lieve.

sabato 11 luglio 2015

Svaghi estivi


"Ma siamo in Canada?", e rido felice del bagliore verde, pulsante, vivo, che d'improvviso tace e lascia spazio alla roccia bianca, severa e muta.
Ti volti e dici che è incredibile, perchè quel Canada ce l'avevi adesso negli occhi e sulle labbra. Volevi parlarmene.
E poi uno struggimento che non so, come di qualcosa che attendevo, come di passi ritrovati, di un luogo a cui dovevo tornare. Un abbraccio materno, a cui abbandonarmi senza domande o parole.
Ho pensato a mio padre, ai suoi racconti canadesi, di cui mi resta l'intensità sognante e un autoscatto sulla veranda: gambe lunghissime e distese, foresta boreale alle spalle.

Non sarò mai una ciclista doc.
Perchè i ciclisti veri, sotto il pantaloncino imbottito non indossano slip.
Perchè il casco tendo ad indossarlo con vezzo, sulle ventitrè.
Perchè interrogata, non so mai quale corona o quale pignone sto utilizzando. E rispondo seccata: "prima tacca del cambio di destra e terza del cambio di sinistra", mostrando le levette nere poste sul manubrio, come fosse già tutto scritto lì.
Perchè mi aggiusto sovente la maglietta sul culo.
Perchè quando devo parcheggiare il mezzo, cerco il cavalletto.
Non sarò mai una ciclista doc, ma in sella alla mia bici sono Gioietta, a sette anni. Massimo otto.

mercoledì 8 luglio 2015

Liste estive


Allora le ero andato dietro e l'avevo abbracciata come se la stessi incontrando per la prima volta dopo tanti mesi. Perchè Jude aveva questo: che con una sola parola io potevo farla sentire abbandonata come se fossi stato in viaggio, però anche il contrario. Che da lontanissimo potevo farla sentire protetta come quando c'ero. E io lo sapevo che avevo questa responsabilità bellissima da sostenere.
(V. Parrella, "Troppa importanza all'amore")

Lista delle cose luminose che voglio fare in vacanza (alcune già eseguite, ma per correttezza e amore del vero le inserisco con il segno di spunta X):
- nuotare in una baia molto azzurra, mentre una nasce una luna padella che sbrilluccica sul mare appena increspato (X)
- mangiare una frittura di paranza
- mangiare seppioline con polenta sorseggiando vino bianco fresco e resinoso (X)
- dormire (X)
- dormire con le stelle sulla testa
- dormire con le stelle sulla testa in cima al mondo (accetto compromessi)
- correre mentre scende un acquazzone
- sfrecciare con la bici sul lungomare (X) 
   evitando rovinose cadute come - ahimè - è avvenuto (ndr)
- abbracciare le amiche
- leggere leggere leggere (X)
- scrivere scrivere scrivere
- regalarmi un massaggio total body
- ballare questo pezzo sul pratino di casa, scalza, le lucette appese al filo
- pagaiare al lago (X) 
- compiacermi

Stamattina prestissimo, guardavo desolata dal terrazzo questo cielo cambogiano. Tutto è lento, oleoso, denso, sotto la coltre umida.
E' passato un ragazzo africano in bicicletta, diretto alla segheria, e cantava. In quel silenzio immobile, lui cantava. Mi son detta che ogni cosa è relativa, che l'anno scorso di questi tempi ero trasparente e leggerissima, che la luce mi feriva gli occhi. Che adesso invece mi sento addosso tutta questa forza bella, come potessi far tutto con le mie braccia, con le mie gambe.
Allora chissene, direbbe un mio alunno. Caldo o non caldo, io sono viva assai.

domenica 5 luglio 2015

Rivelazioni


Allora è così, ne sono convinta.
Mi è capitato di sentirlo come una rivelazione, di quelle che d'improvviso mettono una luce qui e una là, dove prima ci vedevi appena.
E' cominciato tutto quando eravamo all'Oviesse, io e la Giuli, e si doveva pagare. La Giuli aveva un buono sconto, che però non tornava alla cassiera. Questa, scostante, acidina e brusca come poche, pareva le stesse facendo un enorme favore. Ho sospirato e mi sono schiarita la voce. Come a dire "se la fai tanto difficile chiudiamola lì, che mi stanno girando vorticosamente". Invece la Giuli, una flemma da estasi. Tanto flemmatica e paziente, tanto sorridente e morbida, che la tizia ancora un po' le applicava uno sconto supplementare. E giù a raccontare che lei ha una certa età, e manco ci immaginiamo quanti anni ha. Che noi non ci si sognava di rispondere, ma lei ha detto "cinquantasei", e li aveva tutti lì. Invece ci è toccato far finta che ne avesse smarrito qualcuno.
Giuli annuiva, poneva questioni, sorrideva, l'altra narrava del marito che sempre la critica e la vorrebbe più magra. Alla fine, quando io scalpitavo per uscire, ha detto con un certo trasporto "ciao Giuliana" e ci è mancato poco che se ne uscisse da dietro il bancone per stringerle la mano.
L'avevo già notato questo suo modo bello e unico di lasciare uno spazio. Come se dentro la Giuli avesse sempre una poltrona comoda, un caffè fumante, della buona musica. E la gente vede, sente, annusa, prende posto.
Così le ho detto "hai un dono", ma lei che per contro è una testarda da paura, non vuole vederlo. Dice "un dono del cazzo", perchè non la porta dove lei vorrebbe, all'armonia che attende da troppo. Invece sbaglia, perchè sono i nostri doni, i nostri talenti la traccia da fiutare.
Mentre davanti ad una birra enunciavo la mia teoria in germe, lei si bruciava mezzo pacchetto di Camel con aria scettica e vagamente rassegnata. Ma io parlavo lo stesso e parlando, ho visto il mio di talento, che mai mi era apparso con tanta chiarezza. E' stato come sollevarmi un poco, o buttar giù zavorre. Perchè il dono, quello che a tutti è concesso, ma che non sempre si ha la fortuna di intuire, è un motore ausiliare, un propulsore naturale. Ho capito che se se lascio a lui il posto di guida, e assecondo, smetterò di sprecare tempo ed energia a remare scomposta, in balia delle correnti avverse. E la cosa più bella, più straordinaria, è che il dono mi appartiene totalmente. Come un ricordo, un polmone, un sogno, un segreto, un osso. Ecco, nessuno al mondo potrà mai portarmelo via.
"Hai capito cosa intendo, Giuli?"
Lei ha sorriso. E ha ordinato un'altra birra.

mercoledì 1 luglio 2015

Creazione


Dipende sempre da cosa si intende, per amore.
Anche lui, in un tempo altro, quando le cose poteva misurarle, contarle, dosarle, gli aveva dato confini precisi, lo aveva descritto. Immenso diceva, assoluto: ma le parole lo profanavano sempre, lo finivano in qualche modo con la loro pochezza.
Adesso, accanto a lei in quel silenzio di mosche e cicale, adesso che guardava i suoi piedi egizi allungati sulla sabbia e poteva vedere sotto, sotto la pelle, sotto i tendini e i muscoli, ogni singola falange spingersi verso la commovente dolcezza dell'arco plantare, non lo sapeva più.
Mille volte aveva provato a spiegarle, pesce muto all'amo, quanto, come, con quale intensità. Lei aspettava lievemente protesa, spezzava un grissino, le pupille dilatate, divertite, perse in tutto quel giallo.
E niente. Perchè non c'era calibro o volume, libbra o circonferenza. Far di conto è una cosa tutta umana, dettata da umani limiti.
Si chiedeva spesso, registrando un'ombra leggera sul suo viso, o l'incertezza di un passo, se stesse bene, se tutto attorno ogni cosa fosse disposta a dovere. E nel dubbio aggiustava, spostava, smussava, ammorbidiva una luce, addolciva un caffè. Aggiungeva, sommava, perchè la grandezza non conosce sottrazione.
Allora non trovando estuario o voce, quella grandezza cresceva e cresceva, e più cresceva più lui si muoveva inquieto, gonfio di una gioia che si faceva struggimento.
Fu così che lei un mattino di gennaio - quanto amava quei giorni nati scuri che si aprivano breccia nella luce con lame gelate - si svegliò in un abbraccio antico, in una carezza piena di premure, in un grembo che molle le si plasmava attorno, perchè di lei conosceva ogni profilo.
Una mano inesperta aveva cucito assieme i mille pezzi della coperta che l'avvolgeva. Forme geometriche, spicchi irregolari, arabeschi, celesti, strisce dorate, ricami di foglie e rami, verdi. C'era ogni cosa, tutta la vita sua. Notti bianche, biscotti al cioccolato, scarponi ben stretti, porte sbattute, sette in condotta, neve bagnata, un bacio maldestro, la bicicletta rossa che posava appena i piedi a terra, ma come andava.
Alla sua destra, lui dormiva il sonno pieno e giusto del settimo giorno.

La vita è così, stupisce

La vita è così, stupisce

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