martedì 25 agosto 2015

La Domanda

L

E si aprirono i cancelli. 
Da tutti i regni giunsero fanciulle in fiore, per incontrare il Principe della Vetta: carovane e portantine, carrozze e cammelli, baldacchini e convogli. Passava voce che una di loro, dalla pelle d'ebano, avesse viaggiato da solstizio a solstizio sul dorso di un pachiderma.
Ogni tornante della strada impervia e serpeggiante che conduceva al castello, era ingombro di carri, ancelle, schiavi, bestie, che bivaccavano in attesa del gran giorno. Anche dalla piana si potevano scorgere lucenti vesti orientali, colbacchi candidi, corone di fiori intrecciati, e udire musiche struggenti e dolcissime, capaci di ridurre al pianto il più ardito paladino.
"Come i chicchi di tre melagrane", dichiarò una guardia reale vantandosi di averle contate tutte, quelle spose promesse.
Nelle cucine del castello, donne in carne dai seni bianchi parlavano fra loro, spennando tacchini ben sazi e farcendo lepri svelte, tradite dalla luna.
"Non è più lui", disse la serva anziana che sceglieva personalmente per il Signore i pomi più dolci dal frutteto reale, "i suoi occhi sono d'acqua stagna".
"Non si è più ripreso", sentenziò l'addetta alle provvigioni di sale rosa.
La sguattera giovane, graziata da sonni pesanti e colmi di sogni infantili, sospirò. "Raccontaci ancora di quel giorno, Nunzia".
Accadde quando i fiocchi della prima neve annunciarono il lungo inverno della Vetta. Capitava così, da un giorno all'altro: il cielo si faceva ardesia e un'aria secca di ghiaccio, a cavallo della tramontana, trascinava via novembre e il suo sentore di foglie.
Accadde quando il Principe, affacciato al tubinio lieve, ai coppi rossi che andavano scomparendo sotto i suoi occhi, li vide. Nei pressi del pozzo, un uomo e una donna a capo scoperto sedevano affiancandosi, composti. I due servitori, che il Principe ben conosceva, e a ai quali forse aveva rivolto brevi cenni col capo o impartito distratti ordini, parlavano sfiorandosi le mani, mentre tutto il gran fioccare bagnava loro le vesti. A quella distanza non poteva udire le parole, ma s'incantò dei gesti, delle espressioni, della bellezza che ogni cosa pronunciata generava, trasfigurando volti e corpi.
Allora scese, scese quasi mille gradini nel tempo di un battito di ciglia, per interrogarli subito, per sapere quale suono e consistenza e timbro avessero quelle parole non udite. Quando giunse al pozzo, dei due amanti non v'era più nessuna traccia.
Il principe li cercò ovunque fino a tarda notte, attraversando ogni salone, dormitorio, magazzino. Chiamò le guardie, convocò i suoi uomini, descrisse i due alla servitù. Il mattino seguente, qualcuno al villaggio disse di averli visti scendere lentamente la china, diretti al luogo da cui ogni convoglio partiva.
"Da quel giorno", chiuse Nunzia sbucciando una patata, "il Principe non si dà pace. Si tormenta e mormora nel sonno, che a lui non è mai stato dato di sentire parole come quelle, carezze costruite dalla lingua e dal palato".
La giovane serva sospirò nuovamente, e non fece in tempo a dire che una sguattera guercia le mise fra le mani un cesto di grosse lumache da spurgare. "Avanti, ora si lavora bellina!"
L'araldo, giù in piazza d'armi, invocava ora un nome ora l'altro: nomi lunghissimi di spezie e danze, nomi asciutti e freddi di spazi siderali, immacolati.
Una ad una le fanciulle si inchinarono al cospetto del Principe, mostrando bellezze e talenti. Odalische falene e cantrici di tarab, ricamatrici Chuan e amazzoni che d'oro avevano occhi, pelle, chiome.
Il Principe, abbandonato su uno scranno, assisteva distratto a quella malia di colori, volteggi, lusinghe, in attesa che ogni esibizione avesse fine e fosse posta la Domanda.
Lì si faceva attento, proteso, vigile, rizzava la schiena.
"Ora ditemi, cos'è l'amore?"
La giovane di turno, ancora tesa nello sforzo, il petto ansante, volgeva allora lo sguardo attorno, in un muto appello alla moltitudine di figure devote che si stringevano al sovrano. Un paggio si aggiustava il panciotto, una guardia reale saggiava la sua lancia, una seva solerte nettava una macchia con l'angolo del grembiule. Parevano dire con il loro impaccio, che la risposta alla Domanda era oscura all'uomo che si piega e si china, e non conosce vezzi, languori, morbidezze. Tempo.
"Il luogo celeste in cui tutto è armonia", disse la suonatrice di cetra normanna.
"Un ramo di pesco cresciuto fra le rocce", sussurrò con voce di seta la filatrice di bozzoli.
Il Principe ascoltava, sempre adagiando il cuore ad ogni parola, sempre cullandsi nell'ottusa speranza di trovare la chiave per quell'incanto che rende creature di Dio. Ma ogni volta, ad ogni risposta, abbassava lo sguardo, scuoteva la testa, il cuore gonfio di malinconia. Alzava poi un braccio, stancamente, affichè le guardie conducessero altrove la sventurata fanciulla, che in lacrime si lasciava scortare, chiedendosi affranta dove fosse il difetto, l'inciampo, la nota stonata.
Scendeva ormai la sera. Fu annunciato l'ultimo dei nomi ed un saggio consigliere si premurò di avvertire che forse non serviva darsi la pena di affrontare quell'incontro. Una giovane cresciuta nei boschi, disse, senza arti nè estri. Che poco aveva visto, che niente conosceva.
Ma il Principe chiese di procedere, perchè ogni cosa va fatta per bene, e fino in fondo.
La minuta creatura figlia di rovi, legni e ruscelli, entrò misurando la stanza con passi piccoli e solenni. Nere le trecce austere, nero l'abito privo di ornamenti.
"Coraggio, ora cosa mostrerai al nostro Signore?", domandò il consigliere, tradendo la sua boria.
Così lei avanzò lenta, a viso alto, e nei suoi occhi chiamò gli occhi del Principe, e li tenne stretti senza lasciarli mai.
Nessuno osò fermarla, nessuno osò dire che il protocollo non prevedeva, non contemplava, non concedeva. Nel silenzio liquido galleggiava il suo fiato, che poco a poco trovò quello del Principe, lo cinse e le due gole si mossero all'unisono.
Giunta dinanzi a lui si piegò appena, con magnifica grazia, e come cogliendo l'anemone più raro e cagionevole, sollevò la mano del Principe. La tenne nuda, disarmata, il palmo verso l'alto. Poi adagio, consegnò a quella mano la sua tempia, il suo zigomo, l'angolo della sua bocca, respirando grata la sua pelle. E restò.

17 commenti:

  1. Però... fiaba pregna direi (come del resto tutti i tuoi ultimi post)

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  2. La prima risposta che m'era venuta in mente:
    "la natura c'ha dato tutto, poteva evitarci il cervello"

    la seconda:
    Ci vorrebbe uno switch, e qualcuno che chiama la check-list:
    "brain set?"
    alla quale rispondere, mentre si abbassa lo switch: "...off. Green light".

    In realtà non si dovrebbe rispondere, ma solo lasciarsi andare.
    Vabbè, perdonami ;)

    vipero

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    1. E perdonarti di che!!???
      La prima risposta è seria, la seconda è...Vipero :)))

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  3. ah be' una cosuccia leggera...ci hanno scritto tomi su tomi ma, io direi che ognuno ha il suo proprio significato, il problema è trovare chi lo intende come te.
    sconsolatissima S.
    ciao!

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  4. Stupenda fiaba, che poi solo fiaba non è :) Molto bella, scorrevole e significativa soprattutto, mi piace :)

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    1. Già. Che poi magari anche imparo la morale della favola e non faccio troppe performances... ;)

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  5. ora vien da chiedersi: ma lo aveva un reggiseno push Up??

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  6. Ci avevi abituati diversamente
    ma va benissimo anche così
    mi servirà quando la Bianca sarà più grandina.
    Ciao.

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    1. Mica passerò la prossima vita a scrivere favole, eh...

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  7. ciao Gioia

    questo è il mio nuovo blog

    www.correndosulnaviglio.blogspot.it

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  8. Le fiabe cantano l'innamore e questa lo fa in modo eccelso.
    E un po' zen! :)

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La vita è così, stupisce

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