giovedì 12 luglio 2018

La panchina


Ho sempre pensato al mio blog come ad un rifugio. Aprivo la porta, mi infilavo tra le parole scritte e quelle ancora appese, da tirar giù, e mi sentivo in pace.
I primi passi li mossi col Diario di una maestra, nel marzo 2012: se sfoglio adesso quelle pagine, mi struggo. In ogni riga leggo prepotente la voglia di uscire scoperta, di mostrare la donna fremente che nel reale negavo e negavo con ottusa determinazione.
Attrerso quei post confusi e felici, cautamente sondavo lo spazio attorno a me. Prendevo le misure e mi misuravo; dapprima con brevi incursioni, poi con lunghe e brade corse a perdifiato. E se all'inizio i temi, i toni, i visitatori, i tempi, parevano frutto del caso, pian piano (e lo colgo adesso, a posteriori) le cose trovavano un loro senso e assetto, nelle pagine del blog e nei miei reconditi scaffali.
Man mano che i commentatori diventavano presenze abituali, scoprivo altri diari, altre vicende umane, mi confrontavo con esistenze distanti, forti, meditative, assetate, frivole, combattive, che a loro volta in me forzavano soglie, passaggi, varchi.
E sempre di più quel luogo di condivisione mi sembrava una panchina rossa sotto un albero, in un parco pubblico. Io stavo lì seduta all'ombra con la mia sporta colma di storie sulle ginocchia e osservavo i passanti. Alcuni transitavano privi di interesse, altri mi lanciavano uno sguardo e poi andavano oltre, altri ancora si accomodavano accanto a me, con garbo, a una certa distanza. 
Ci voleva tempo per conoscersi, molte storie andavano estratte dalla sporta. 
A volte, dopo tanto leggersi, annusarsi, mettersi a nudo, veniva il momento delle divergenze, dei bei confronti, che spesso proseguivano nelle rispettive caselle mail e altre si concludevano davanti ad un calice di vino. Vero.
Con la stessa grazia mi sono accostata alle altre panchine, su cui sedevano anime sconosciute, degne di massimo rispetto, così come i loro scitti. E potevano passere settimane di studio e lettura, prima di lasciare un commento lieve, in punta di piedi.
In fondo era la loro panchina.
Quando tutto nella mia vita è profodamente cambiato, si è fatto avanti il bisogno di congelare quella pagine, troppo dense del vuoto attraversato.
Così in un pomeriggio di maggio ho scelto lo sfondo floreale e azzurro delle Parole spettinate, più in tinta con la donna che da quel dolore si risollevava vestita di nuovi colori.
Ci sono amici blogger di lunga, lunghissima data. Che ancora citano le vicende della Maestra e con i quali si è condiviso altro, oltre. Alcuni, arrivati più tardi in queste pagine, fanno parte in qualche modo della mia vita: mi capita di pensarli, di chiedermi come sia finita questa o quella vicenda, di sentire il bisogno di portar loro un sorriso. 
Quello che accomuna i miei lettori e che a loro mi accomuna, è un interesse personale, che va al di là della pagina scritta. Un'affezione che nasce dal sentirsi parte di vicissitudini, gioie e tormenti e che di certo non sostituisce e non adombra le amicizie tangibili del quotidiano, ma ne conserva alcune dolci caratteristiche.
Per principio ho sempre commentato blog che ritenevo di mio interesse, i cui argomenti stimolanti e gradevoli mi portavano a sani e costruttivi confronti e il cui autore mi appariva persona dalla mente vivace e degna di stima. Che senso avrebbe avuto altrimenti, accostarsi a quella panchina, occupata proprio da quella persona, con la sua sporta di storie sulle ginocchia?

C'è da dire che da qualche tempo registro un generale collasso nella sfera delle relazioni. Ho amici invischiati in brutte questioni lavorative, dove l'etica non sta di casa. Altri che subiscono o perpetuano tradimenti plurimi, sordi ad ogni richiamo della coscienza. Ho conosciuto e allontanato gente capace di infangare e disonorare, senza il minimo moto di vergogna. Ci sono umanità fragili ed inconsistenti che si ergono a giudici supremi, incapaci di guardarsi il palmo delle mani sporche.
La società liquida, dice Bauman, l'ego sopra tutto, l'altro come specchio.
Ecco, forse la mia scelta di restringere il campo, nella vita, a pochi amici, poche cose, poche parole, trova riscontro adesso anche qui, nel mio rifugio segreto, sulla mia panchina rossa.

Poso la sporta con le storie, per un po'. Forse la riprenderò sulle ginocchia più avanti, o magari altrove.
Ho solo bisogo di tirare un po' il fiato.

domenica 8 luglio 2018

Le verità

Da qualche anno, ossia da quando ho iniziato a tastare la mia consistenza, ho cambiato il mio modo di accostarmi all'altro. Sono decisamente più cauta, più protettiva, più consapevole che l'essere umano mostra quel che riesce a mostrare ed è - tendenzialmete - menzognero. Meno coscienza di sè e più bugie, questo sinteticamente è l'assunto. 
Ora per bugie io intendo tutto quel cumulo di fulgide parole, fasulle convinzioni, narrazioni inesatte, idee artificiose che esprimiamo, esibiamo o semplicemente ci sussuriamo, per salvaguardare la nostra immagine, cioè l'immagine di noi che abbiamo faticosamente costruito nel tempo e che desideriamo entri in gioco nella relazione con l'altro.
Faccio un esempio. Un uomo che ha dovuto lottare per raggiungere una certa posizione, ama raccontarsi che si è costruito da solo. Fa di questo una bandiera e tende a dimenticare (la nostra mente seleziona i ricordi e i fatti con grande perizia) tutti gli episodi che non avvallano la sua tesi o che sbiadiscono la sua luminosa immagine.
Sia chiaro, questa è un'operazione che tutti mettiamo in atto e che per certi versi può risultare salvifica. Basti pensare a chi vive grossi traumi e decide di non affrontarli/rielaborarli, ma riesce comunque a vivere, a trovare un suo equilibrio.
Quindi non giudico in malo modo la menzogna che preserva l'identità (seppure fallace), perchè non è un atto cosciente. Eppure resta il fatto.
Ecco, io per dirne una, ho passato anni e anni a raccontarmi un'adolescenza brada e ribelle, che peraltro c'è stata tutta. Ma ho sempre omesso, a me stessa e nel racconto che ne facevo, che quello spirito indomito e racalcitrante andava di parti passo con un totale smarrimento, con una vertigine continua, con un dolore tanto assordante da zittire ogni altra voce. Mi piaceva di più la ragazzetta sveglia e impavida, capace di fronteggiare con audacia qualsiasi adulto, mi pareva più vincente e socialmente accettabile. Ma non era vera.
Spesso smonto i miei altarini - ne costruisco a iosa - e non è mai piacevole vedere davvero le cose come stanno.
Così adesso mi approssimo all'altro con stupore e meraviglia immutati, ma non posso evitare di chiedermi quale verità racconta, quanto di sè è riuscito a svelare e quanto riesce a mostrarmi.
Diciamo che tengo un certo margine. Sono sempre io, quella che nelle relazioni si tuffa di testa, ma  indosso il paracadute, ecco. Mi dò tempo, dò tempo all'altro, lascio che le cose prendano forma, provo capire se le nostre verità - e le nostre omissioni - sapranno prendersi per mano e saltar giù assieme.

mercoledì 4 luglio 2018

Tempo lento

Quando sono in vacanza faccio girare il tempo a modo mio. Anche a modo suo, è ovvio, ma senza patemi.
Stamattina lui è andato via con la bicicletta da strada e ha messo la sveglia alle sei. Io mi sono alzata, abbiamo bevuto il caffè assieme, poi quand'è partito sono tornata a letto con il libro nuovo. Le persiane erano accostate e la camera era in penombra; sentivo ronzare pigramente qualche ape nel giardino, attorno alla lavanda. Poi i vicini hanno raccolto canotti, salvagenti, figli e borse frigo e sono chiassosamente saliti in macchina. E da lì, silenzio assoluto. Dopo un po' mi sono riaddormentata e ho sognato. 
Al risveglio ho guardato il cielo: c'era ancora foschia e non mi andava di scendere in spiaggia. Così (visto che mi sto allenando come una persona seria e il fitness non va mai in vacanza 😃), nel salotto fresco mi sono allestita uno spazio per gli esercizi. Musica, tappetino, bottiglietta d'acqua e via...un, due, tre...e vai, stringi i glutei...su, su, su...
Mi sono fatta la doccia in un tempo largo, vuoto e ho fatto cose che riduco sempre all'osso: l'impacco ai capelli, la crema idratante stesa a dovere, lo smalto.
Fuori, hanno cominciato a frinire le prime cicale. Allora ho tagliato un melone, ne ho sistemato un po' sul piattino assieme a due fette di dolcissimo prosciutto crudo e mi sono seduta in terrazza.

La terrasse
Parecchio più in su, verso la strada, il suono ritmico e rotondo di un pallone calciato.
Mangiando ho letto ancora, alzando a tratti gli occhi per salutare il mare che continuava a cambiare colore.
Quando lui è arrivato, accaldato e con un mare di cose da dire, la pasta fredda era già sulla tavola apparecchiata. E anch'io ho raccontato del mio libro, di un articolo curioso, del nostro cane che, dicono da casa, ci cerca ogni mattina fiutando ogni angolo della camera da letto.

mercoledì 27 giugno 2018

Il museo

Che mi basta l'arrivo del ciclo o la luna piena o un litigio stupido, per una notte insonne. E mentre sono in piedi che aspetto il caffè, mi prende tutto un torpore e ho freddo alle mani, alle gambe. La testa mi pare piena di farina, ottusa.
In quella specie di stato liquido, sento qualcosa salire dal fondo. Sono delle tavole, disegni ben tratteggiati, che venendo su cozzano, si incagliano, si voltano e si rivoltano, come spinti verso l'alto dal mio mare inquieto. 


Ecco, io che entro in casa e cammino con fatica. Mi hanno appena dimessa dall'ospadale e i miei bambini piccoli attendono alla porta. Sono pallida, provata, mi sforzo di far loro un sorriso bello, ma tutto mi costa enormemente. Edoardo che ha tre anni mi osserva sospettoso, inclina la testa. 
Poi dice "sei Gioietta?" e io rido e dopo piango.

C'è una stanza vuota, con una scala in mezzo. Qua e là barattoli di vernice bianca, pennelli, una scopa. Alcune persone transitano, dalla finestra aperta sale una voce: chiama, dice che sono pronti i panini. Scalza, attraverso il lungo corridoio con addosso una tuta chiazzata di colore e scendo gli scalini veloce, saltando a piedi uniti gli ultimi due. 
Fuori, un sole settembrino pieno di promesse.

Ci siamo noi in salotto, sul divano, che discutiamo concitati ma senza alzare troppo la voce: i bambini dormono e non devono sentire. Ho un po' paura, perchè per due volte lui avvicina le mani alla mia faccia e poi le ritira, ma sento potente l'urto della sua rabbia scura. 
Provo a dire qualcosa di calmo, qualcosa di fermo a cui aggrapparci.
Non fare sempre la psicologa del cazzo. 
Ma...
Hai capito? Non fare la psicologa del cazzo!
Dal fondo del corridoio, sento un rumore, i bambini sono svegli.

C'è un uliveto e ci sono le cicale. Sono seduta sul lettino a gambe incrociate. Mi guardo la pelle dorata, levigata, lo smalto rosso sulle unghie delle mani. Il libro di Sociologia dell'educazione è aperto in mezzo all'erba e tutto attorno fogli, dispense, pennarelli colorati.
Mi alzo, entro nella casa fresca, ombrosa e prendo una pesca. La addento, lascio che il succo scenda lungo il mento e poi lo asciugo col dorso della mano.

Siamo sul traghetto, è la prima vacanza assieme. Fa caldo, molto caldo e io sono troppo vestita. Mi vergogno della mia magrezza, la occulto come posso. Lui mi tiene la mano, osserva la gente da dietro gli occhiali da sole, le gambe allungate davanti a sè. In pace.
C'è una famigliola del nord Europa, molto benestante. Belli come sanno essere quelli che ben stanno, che possono curare il corpo, esporlo al sole, farlo riposare, rinforzarlo, nutrirlo a dovere. Lei in particolare è uno vero spettacolo: bionda, slanciata e muscolosa. Indossa degli shorts di jeans sfilacciati, una canotta bianca, un cappellaccio cow-boy. Si muove qua e là come un felino, portando in collo un bimbetto. Sa di essere bella, sa di essere guardata.
Io invece so cosa piace a lui: bionde, muscoli e shorts.  E so di essere magra, vuota, spenta, per colpa del dolore.
Cerco di capire, guardando di taglio, se lui gode dello spettacolo. Vorrei dissolvermi.

Esce il caffè. E' bollente, lo bevo a piccoli sorsi. Poi attacco al muro le mie tavole con i disegni, una dopo l'altra. Faccio un passo indietro, li osservo. Mi paiono tanto belli, così pieni di risposte.

domenica 24 giugno 2018

E insomma son contenta


Essendo la nostra una scuola non parificata, ogni anno tutti i bambini/ragazzi devono sottoporsi agli esami di idoneità presso una struttura pubblica o riconosciuta.
Questo implica un'aderenza ai programmi ministeriali e dimostra che dare spazio al pensiero creativo, ai talenti individuali, alle esperienze dirette e al fare, può magnificamente conciliarsi con obiettivi strutturati, competenze specifiche e traguardi di apprendimento.
Una delle cose che i nostri bimbi dicono più spesso, quando si tratta di descrivere la loro realtà scolastica, è "non abbiamo i banchi". Come se i nostri tavoli da cucina o salotto, sparsi qua e là nelle stanze, che rappresentano comunque uno spazio di impegno, lavoro e operosa attività, fossero lì come un segno di apertura, come la dimostrazione chiara del loro essere "liberi di apprendere".

La mia classe
Agli esami arrivano sempre pettinati ed eleganti: una mamma mi ha raccontato che il giorno precedente alle prove la sua bimba ha voluto ad ogni costo comperare un vestitino nuovo, che ha poi indossato orgogliosamente per raggiungere l'edificio scolastico con tutti i suoi "lavori" sotto braccio.
Sono sempre molto emozionati e a volte un po' tesi, come ognuno dei loro maestri. Anche per noi, che abbiamo scelto di insegnare in modo non tradizionale, l'esame è sempre un banco di prova, necessario a calibrare e misurare un intero anno di pratica. Pratica che alla fine, fermi restando i programmi, è anche per noi un esercizio di libertà: posso parlare dell'antica Roma simulando le guerre puniche, leggendo Ovidio, cucinando la salsa garum o confezionado una toga. E in tutto questo tuffarsi e nuotare nella bellezza di apprendere, manca - per scelta consapevole - la rete protettiva del registro, delle comunicazioni ufficiali, della penna rossa che sottolinea l'errore. Mancano i numeri, a dirti che hai fatto un buon lavoro, che sei un buon maestro. 
Ecco perchè anche noi arriviamo a quel giorno vibranti, carichi di emozione.
Mai come quest'anno sono stata fiera dei miei bambini. Mi è piaciuto il loro modo di approcciarsi alla commissione d'esame, il loro sorriso sicuro e il loro fare educato, il sentirli dire "ma ci avete chiesto poche cose!". Mi sono piaciute le facce compiaciute delle maestre ospitanti, il loro stupore di fronte ai bellissimi modellini e lavori personali, frutto di impegno e fatica. E la voglia dei ragazzi di dire, ancora dire e ancora mostrare, convinti di avere qualcosa di importante da comunicare, di essere riconsciuti attraverso le loro scoperte.
Come quella bimba di seconda, che uscita dall'esame orale ha detto: "ho spiegato gli egizi come fossi stata un'archeologa, li hanno capiti bene". 
Insomma bravi, e basta.

La cellula  
 
Plastico della valle glaciale
Il legionario
Il cuore

lunedì 18 giugno 2018

Pensieri e luci


E quando io son lì che mi chiedo le cose, che mi arrovello sul senso profondo di una pagine letta, che provo a capire cosa mi sta dicendo un sentire, c'è sempre qualcuno che arriva dicendo "non pensare troppo". 
Ecco, il dialogo è più o meno questo:
- Ma non pensare troppo!
- Non penso troppo.
- Però ti angusti per le cose.
- Eh, mi pare normale.
- Sembra che non ti goda la vita con tutti quei pensieri...
Ecco, io non capisco. Come se riflettere, smontare i fatti, porsi dei quesiti sulle proprie e altrui risposte ai fatti della vita, volesse dire "ho le ugge, adoro sguazzare nel torbido, anelo ad un leopardiano e insanabile sconforto".
Fin da bambina invece, ho tratto grandi gioie da una costante attività di taglio e cucito: un dialogo, un passo lesto, una parola nuova, l'onda morbida di un'acconciatura, una dichiarazione d'intenti, il verso di una poesia. E lì subito a tirare fili, a cercare connessioni, corrispondenze, come se attorno a me ogni cosa si muovesse segreta e si dicesse crittografata, in attesa del mio sguardo attento pronto a schiudere il vero senso del tutto.
Ora so che non è così. O perlomeno, che non è proprio così. Ma ancora credo alle luci che si accendono, ai colpi di genio che folgorano, alle chiavi che all'improvviso disserranno porte affacciate sulla bellezza. E rimango chirurgica nelle letture, soprattutto quando si tratta di me. Perchè hai dato quella risposta sgarbata? Cosa si era agitato dentro di te? Perchè hai avuto bisogno di raccontare una certa cosa, che ti mettesse in luce? Cosa volevi dimostrare, quale debolezza celavi? Perchè questa persona ti irrita? Quali corde sta toccando, quali ricordi smuove?
Se colgo incoerenza, contraddizione, torpore, abulia, allora provo impellente il bisogno di agire e fare e spostare pedine.
Come dire che arrovellarmi un poco mi porta all'azione. Come dire che pensare - il giusto -, mi fa star bene.
Nel frattempo, sia chiaro, sorrido molto. E bevo un bicchiere di Sauvignon e dico sconcezze e canto quel che capita, come capita, pensando ad un paio di sandali rossi.

lunedì 11 giugno 2018

Di nuove generazioni


Alla bambina cade dalle mani la scatoletta. I frutti di bosco che conteneva, rotolano quasi tutti sul pavimento, tranne alcuni che fortunatamente restano sul tappo rovesciato.
Siamo io e lei da sole: alziamo in sincro gli occhi da terra e ci guardiamo. Decido di non commentare e continuo a sistemare alcuni libri, come nulla fosse: voglio capire cosa intende fare.
La bimba, che ha circa sei anni, rimane con le braccia lungo i fianchi, affranta. Sposta lo sguardo triste dai frutti a me e viceversa, ma non parla e non si muove. 
Dopo qualche minuto mi rassegno a dire qualcosa. 
- Cosa vuoi fare?
- Non so.
- Penso che si debbano togliere lì, lo credi anche tu?
Fa sì con la testa.
- E quindi?
- Li raccologo e li butto.
- Bene. Dove li butti?
- Nelle immondizie.
- Giusto. Ma tutti li butti nelle immondizie?
Guarda a terra ancora, incerta, poi fa no con la testa. E rimane lì, ferma.
- Allora forza. Butta quelli che devi buttare.
- In quale cestino? 
D'istinto mi verrebbe da raccogliere tutto con due manate e chiudere la faccenda il più velocemente possibile. Ma so che non va bene. So che è abituata proprio a questo e questo si aspetta da me.
- Tesoro, secondo te dove si buttano gli avanzi delle cose da mangiare?
Cerca a destra, a sinistra. Il cesto dell'umido è proprio dietro di lei e non lo vede.
- Guarda, è dietro di te.
Con lentezza senile si china a raccogliere i frutti, ma la vedo titubante e accigliata nel momento in cui si appresta ad affrontare quelli puliti, rimasti sul tappo rovesciato.
- Dove li metto questi?
- Attenta che se non li mangi tu, li mangio io!
 E la faccio ridere. Ma resto così, con la faccia da pesce.


Una collega delle medie accompagna i suoi alunni presso un liceo cittadino per svolgere delle attività con i ragazzi più grandi. 
Fanno il loro ingresso in una classe terza, mentre è in corso la lezione.
Il prof spiega, parla e si anima, ma gran parte dei ragazzi smatetta a testa china con il cellulare: la cosa è piuttosto plateale e decisamente brutta da vedere.
Appena la collega ha occasione di scambiare due parole con il professore, commenta la cosa e chiede se è lecito che durante la lezione si facciano beatamente gli affari loro.
- Non sarebbe lecito, ma prova a toglierglielo...
Ecco, questa risposta mi fa rabbrividire. Anzi, mi fa incazzare. Non ti vergogni, caro collega, ad esporre la tua miseria con una simile calata di braghe? Perchè, non è forse tuo compito prendere una posizione, netta e decisa? E qui, non sei tu il tutore della legge? Non ti compete un ruolo educativo, un contenimento, una presenza forte, autorevole e proprio per questo, anche rassicurante?
Se a fronte di quattro genitori maneschi e trogloditi, chi dovrebbe garantire il rispetto delle persone e delle regole, se ne lava le mani e rincula, io non so più che dire. 
Tanta amarezza.

venerdì 8 giugno 2018

Restano
















E non riesco a disabituarmi.
Al braccio allungato, dietro,
alla mano chiusa nella mia:
dai vieni, andiamo
ma ci sono i lego nella vetina e un fucile ad acqua
che spara a spruzzo.
Te lo regala la nonna,
che sto mese mi tocca pagare l'apparecchio.
L'altro sta poggiato sul fianco,
come una scimmia mi si attacca al collo
mentre cerco le chiavi dell'auto nella borsa.
Ha le dita sporche di gelato,
la bocca appiccicata alla mia spalla.
Ecco,
io non riesco a riempire il vuoto
del palmo della mano
e del fianco.
Mi pare d'essere cava,
anche se sono piena.
I due ragazzi seduti qui al mio tavolo
ora mi raccontano di un sogno, di un profumo, di un film (ti piacerebbe mamma!).
Restano, i miei bambini,
in certe foto di salvagenti, biciclette
e giochi sudati.

giovedì 31 maggio 2018

Collage

Circa otto anni fa ho frequentato un corso di inglese per sfigati. Nel senso che da una parte era organizzato con i fondi europei a costo zero (e forse per questo la docente non si distingueva per capacità e brillantezza), dall'altra i corsisti erano tutti ugualmente e tristemente mal messi: livello yes, no, what time is it. Pronunciati da cani.
Attraversavo la seconda fase del declino del mio matrimonio, quella in cui cercavo disperatamente di gettare nel dimenticatoio la tripletta amo un'altra e nel contempo mi raccontavo che ci stavamo provando. A salvare tutto. A non deludere nessuno. A far tornare ogni cosa come prima. 
Ma dentro, alla bocca dello stomaco, c'era un'altra bocca più aperta, più sghemba, più tremante, che urlava dal suono della sveglia al clic dell'abatjour sul comodino. Perchè l'avevo capito anch'io, che da tempo eravamo solo due premurosi fratelli, che lui aveva ragione da vendere.

 
In quella seconda dolorosa fase però, un pezzo alla volta il mio corpo si dipingeva: rosa le gambe snelle, dorati i capelli arruffati, celesti gli occhi allungati. Mi guardavo, mi scoprivo, imparavo a mostrare senza esibire, portavo giù in cantina scatoloni di vestiti informi, pantaloni maschili, gonne al polpaccio, camicette di flanella, scarponcini stringati.
Uscivo lieve, indossando orecchini coloratissimi e scarpe rosse. Verdi. Bluette.


Le lezioni iniziavano subito dopo cena e la fauna umana era variegatissima, divertente. Ragazzi appena diplomati, due sposini, una docente in pensione, due casalinghe, una barista, un attempato manager, due finanzieri dall'occhio languido. 
E proprio il finanziere una sera arrivò in ritardo e prese posto nel mio banco, a fianco a me. Mi guardò, alzò gli occhi al cielo sorridendo come a dire caspita, che figuraccia
Dai tempi del liceo non stavo così vicino ad un uomo che non fosse il padre dei miei figli. Ricordo perfettamente il suo odore buono, un misto fra detersivo e dopobarba, che mi ammorbidiva, mi confondeva e mi spaventava a morte. Non potevo fare a meno di guardare (con un misto di vertigine e sgomento) il braccio abbronzato, il braccialetto nero di caucciù, le dita nervose che spostavano i fogli e giravano le pagine.
Da quella lezione, e fino alla canonica pizza conclusiva, giocammo al gatto a al topo. Mi cercava quando arrivava, mi portava il caffè durante la pausa, mi accompagnava alla macchina a fine lezione. E io evitavo, ma non sapevo evitare, dribblavo, scantonavo, ma poi con gli occhi dicevo "son qui".
Tornavo a casa brilla, accesa, guidando sorridevo.
Quando l'insegnante, all'ultima lezione, distribuì il foglio con i contatti di tutti i corsisti, ero certa che mi avrebbe cercata. E mi cercò.
Ma non gli risposi mai, avevo ancora diversi pezzi di me da colorare, prima di essere pronta.
I denti, le spalle, i piedi, le labbra. Le unghie. Di rosso, verde, di bluette.




giovedì 24 maggio 2018

Nervosetta


A fine maggio le curve della mia intolleranza (generalizzata, non specifica) si allargano e si acutizzano. Al fine di preservare i bimbi e con la ferma intenzione di non mollare quel che resta della mia maestranza, divento fastidiosa col resto del mondo.
Sostengo che la gente mi risponde male.
Rispondo male alla gente.
Mi irrito con le persone che viaggiano a corrente alternata/umorali.
Viaggio a corrente alternata e sono decisamente umorale.
Dico agli altri che non devono leggere tra le righe, quando parlo.
Leggo tra le righe quando gli altri parlano.
In questo stato di perfetto disequilibrio faccio quello che non si dovrebbe mai fare sotto stress: metto giù bilanci, tiro conclusioni, estrapolo dettami e precetti da episodi (spesso) irrilevanti.
In buona sostanza però, screma che ti screma, due tavolette della legge, senza nessuna pretesa di universalità, le vorrei incidere.
1) non fare troppo la sborona e la prima donna: stai nell'ombra, che poi se ti metti nel cono di luce è un niente che ti chiamano in causa random (hai voluto la bicicletta? e adesso pedala). Come quando alle elementari tutti schimazzavano ma la maestra Anita sgridava sempre te perchè "ti si nota di più";
2) impara a chiudere qualche scomparto, una o due porte, un cancelletto. Non sempre gli altri sanno fermarsi sulla soglia, se tu non avvicini (con grazia) l'uscio;
3) spalanca il cuore a chi si prende in giro, a chi ironizza sulla sua natura imperfetta: solo chi conosce le sue debolezze accoglie quelle altrui;
4) ricordati di comperare la cioccolata bianca, che ti fa tanto bene.

sabato 19 maggio 2018

Farsi attraversare


Grazie a Nuvola mi sono ricordata che da piccolissima, intorno ai quattro o cinque anni, disegnavo compulsivamente. Mi piacevano le figure umane, ça va sans dire. 
I miei soggetti avevano molti dettagli, tanti colori accesi e curiosamente indossavano diversi cappelli uno sopra l'altro. Ma non due o tre, pile lunghe una decina di copricapi. Così nello stesso foglio andavano a spasso Tizio e Caio, ognuno con il suo bel metro di roba in equilibrio sulla testa.
E poi mi chiedo perchè sono quella che sono. 
Perchè mi incanto, al banco della frutta, a guardare le scarpe di vernice col tacco altissimo di una donna che pare una caricatura. E mi chiedo com'è la sua casa, se ama un uomo bello, se ha un'auto rossa e se la sua mamma è ancora viva.
Perchè, ferma in auto dietro lo scuolabus, mentre piove a catinelle, mi perdo dietro questo bambino secco secco che scende e apre goffo l'ombrello e immagino il piatto di pastasciutta che lo attende, la tovaglia a quadri, un cane meticcio che fa le feste.
Le espressioni degli altri, il dolore in un gesto, le esistenze a metà, i sogni altrui, mi hanno sempre attraversata da parte a parte, anche quando non volevo. 
Li ho tutti quei cappelli in testa, incastrati uno dentro l'altro, un metro di cose in equilibrio su di me.

domenica 13 maggio 2018

Quasi estate

          
Il mio ombrellone, la tipologia di spiaggia che mi va a genio

 (Grecia)
Stamattina, scendendo le scale per andare al lavoro, mi sono ricordata che con la benzina ero in rosso. Quindi tutto di corsa, tanto per cambiare.
Così ho pensato a quando, nei giorni in cui la mia famiglia andava in mille pezzi, viaggiavo come ubriaca con cinque euro nel taccuino, l'auto a secco, gli occhi pesti e il telefono senza credito. 
Magra da far paura, che bastava un niente a portarmi via.
Una sera di maggio, alcuni amici della scuola mi hanno stanata a forza. Mi sentivo brutta, vuota, ascoltavo la mia voce come da fuori, dire e ripetere quelle quattro cose rassicuranti in merito alla mia condizione.
Pian pianino mi risolleverò. Ci vuole solo tempo.
Edo e Jacopo sembrano sereni, per ora.
Faccio fatica ad alzarmi al mattino, ma saranno i farmaci.
Poi, mentre si mangiava, gli altri - tutti accoppiati, più o meno felicemente - hanno cominciato a parlare di vacanze. Grecia, Sardegna, il campeggio, Parigi, la casa dei nonni a Grado. Risate sui bagagli femminili che i consorti si rifiutano regolarmente di caricare in macchina.
E io, che mi sentivo morire ad ogni risveglio, che non sapevo più fare la spesa e mettere assieme un pasto decente per i miei figli, ho realizzato che sarebbe stata la mia prima estate esposta e nuda. Fuori dal pacchetto formato famiglia con dentro le palette, il canotto giallo, il sandalo col tacco che si butta in valigia perchè non si sa mai e le caramelle gommose per il viaggio.
Ho realizzato che io, senza un noi, non valevo niente. 

Adesso so che non è così. Tante e tante cose sono accadute, tante pelli ho cambiato e altrettante mi hanno fatto da nuovo involucro. Ho imparato a distingure fra paure e bisogni, ho finalmente capito che non devono essere le prime a determinarmi, ma i secondi a mostrarmi la strada.
E l'estate che arriva senza palette e secchielli, ma con un paio di Converse abbandonate nell'atrio, una playlist nuova da ascoltare (mamma, l'hai sentita questa che bella?) e il mio immancabile olio abbronzante al cocco, mi sembra carica di fantastiche promesse.

sabato 28 aprile 2018

Mi lumacizzo (o lumachizzo?)


L'altro giorno una bambina mi ha domandato cosa vuol dire "campanile". Come quella volta in cui si parlava del circo e due alunni di prima hanno chiesto lumi. Non avevano idea di cosa fosse.
Ho creduto di aver sentito male, quindi le ho chiesto di riformulare la domanda.
"Non so cosa vuol dire la parola campanile, maestra".
Circo, campanile. Mi son chiesta cos'avessero in comune queste due parole. 

Mi è capitato spesso di cercare di orientarmi per raggiungere il cuore di qualche paesino e in mancanza del navigatore ho sempre cercato di adocchiare il campanile, la chiesa. Lì era il centro nevralgico, lì era la piazza, il municipio, la posta, il bar, la scuola.
Ma non è più così. I bambini non giocano nella piazza, le rondini non volteggiano nel loggiato della chiesa e il suono delle campane non annuncia i vespri e l'approssimarsi dell'ora di cena. I palazzi in città occultano ogni cosa e l'orizzonte è invisibile.
La mia eroina Heidi, arrivata a Francoforte, cerca un posto in alto per vedere tutto attorno. Allora il bambino che suona l'organetto, la porta proprio sotto il campanile del duomo e lei corre su. Per dirne una sui campanili.
Nello stesso modo, i circhi grandi e piccoli che popolavano le periferie polverose d'estate e rappresentavano per i bambini - insieme alle giostre - una rara occasione di svago (al di là delle questioni animaliste), ora  sono quasi scomparsi. Hanno poco grip: tempi lenti, niente effetti speciali, odore pungente, poltroncine di plastica.
Capisco tutto, non mi oppongo al naturale evolversi delle cose, trovo normale che un multisala risulti più accattivante di un circo. Eppure mi spiace, mi sembra che i piaceri nuovi, pronti a sostituire i vecchi, ci trovino comunque più passivi e inermi. Meno lieti.

Scompaioni i circhi, si dimenticano i campanili e le persone si annusano su Tinder. Che non capisci neanche se uno sa di buono. Ma ne riparlerò, perchè devo ancora chiarirmi alcune cose.
E' solo che mi viene da ritirarmi sempre di più nella mia chiocciola e poi Francesco si arrabbia.

mercoledì 25 aprile 2018

Ridere





Sono seduta sotto un ombrellone in Slovenia, bevo una birra e tengo d'occhio due vecchini. In fondo al prato hanno allestito un tavolo da picnic. Da questa distanza capisco poco, ma il poco mi basta a immaginare. 

Me li figuro avanti con l'età (lei è tutta bianca, parecchio china e si appoggia al bastone), ma abbastanza sani e vigili da regalarsi una domenica così, loro due da soli. Lui si muove molto attorno al tavolo, le porge cose, poi le si siede di fronte e un po' resta.
Penso che non abbiano figli o nipoti. Non so perchè. 
Penso pure che non siano italiani e mi vedo la loro casa di sassi, con l'orto e i fiori di campo disordinati nelle aiuole del giardino, come usa qui.
Poi si alzano per andare: lui raccoglie tutto, riempiendo un paio di borse; lei gli indica qua e là gli oggetti. Uno dietro l'altro attraversano il prato lentamente, nella nostra direzione.
Man mano che si avvicinano - e ci mettono cinque minuti almeno - la mia storia si aggiusta, si compone, perde alcuni colori e si tinge di altri. Si modifica una decina di volte, nello spazio di quel prato.
Si siedono accanto a noi e ordinano un caffè: sono molto italiani. Lei da vicino mi piace da matti. Dietro i grandi occhiali spessi muove le pupille nere a spillo, curiose. Indossa una camicetta bianca con il colletto di pizzo e una gonna nera al polpaccio. E' piuttosto rotonda. Ma è nella voce giovane, carezzevole e lieta, che si dice tutta. Una voce da maestra.
Ad un certo punto lui le mostra un depliant con i prezzi del piccolo albergo lì accanto.
"Te ga visto? Costa solo venti euro a notte", le dice.
Lei legge tutto per bene, sorseggiando il caffè.
Poi replica, con aria vispa e ironica: "e cossa femo qua mi e ti, tutto il giorno?".
Lui ride di gusto e se la ammira con tenerezza.
"Se guardemo nei oci", ha detto.
Ci guardiamo negli occhi.
E allora hanno riso assieme.


lunedì 16 aprile 2018

Domenica


E' domenica, suonano le campane. Mi cambio in camera, la porta che dà sulla terrazza è socchiusa, entrano odori (sì sono tornati, assieme al cinguettare degli uccelli al mattino): terra, vento, erba.
Mi sfilo la maglietta davanti allo specchio, mi guardo. E lì resto, le braccia lungo i fianchi, i capelli sciolti sulle spalle.

Quante volte nel tempo ho sentito suonare le campane della domenica? E dov'ero, cosa facevo, in quale giorno si infilavano il mio corpo e i miei pensieri?
Le domeniche con le calze bianche e le scarpe di vernice sotto il banco della chiesa, piedi e occhi inquieti, mai paghi. O quelle con il telo da mare e la nivea blu nello zaino in spalla, via di corsa che l'autobus scappa. Le gambe da donna, che si credono bambine vanno via scomposte.
Le domeniche in cui la mamma grida alzati, è mezzogiorno e l'unica preoccupazione è nascondere la minigonna prima di uscire, vestita a modo. Poi cambiarsi e truccarsi nel sottoscala.
E quelle su e giù dai treni, le lasagne e il sugo di pomodoro in valigia, le pagine di Siddharta piene di appunti.
Certe domeniche gonfie di sonno, che i bambini saltano sul letto. Fuori piove un'acqua brumosa e da qualche parte, qualcuno, ha fatto il caffè.
E poi questa domenica di rondini. Io mi preparo per la gita (ma quanto mi piace vagare?) mentre tu canti in cucina un pezzo degli U2.  I’ve been thinking about the West Coast...

E' una domenica di tante, eppure è una sola e diversa fra tutte, perchè sfioro la mia pelle di latte, e carezzo una bambina, una ragazza, una donna. Che mai mi ero voluta così.

giovedì 12 aprile 2018

Non li vogliamo


Stiamo spegnendo i bambini. Impediamo loro di esserci, vedere, sentire, avere domande.
Qualche sera fa, al ristorante. Dietro di noi due fratellini pigiano compulsivamente i tasti di una specie di pianola, producendo suoni stridenti. Pigiano a caso, ma la pianola attacca sempre quei due o tre pezzi di allucinante bruttezza. E una volta, e due, e dieci.
Ci voltiamo, come a far capire che gradiremmo cenare in pace, ma nessuno vuol far caso. 
Quasi in sincro, nel tavolo a fianco piazzano due ragazzini appena più grandi davanti al tablet, con un film di animazione. Ovviamente, niente cuffie in dotazione.
Ecco, al di là del fastidio, resta un sapore sgradevole in bocca. Resta l'impressione che non li si voglia sentire, con la scusa ufficiale che "si annoiano", e che "non possono stare seduti così a lungo".
I miei genitori sessantottini frequentavano una nutrita compagnia e si gozzovigliava spesso. Ho un bellissimo ricordo di quelle serate - in cui ero l'unica bambina - e del piacere che provavo ad osservare, capire e cogliere il senso delle battute, dei discorsi. Mi divertivo un mondo.
Il mio immaginario ha messo le prime timide radici in quelle storie di viaggi, amori, ricette, letture. Si sposavano, partivano, pubblicavano scritti, teorizzavano postulati. Ma anche si ubriacavano, cantavano e a volte dormivano in auto.
Pure i miei figli han sempre goduto delle occasioni conviviali, al ristorante o a casa di amici. Hanno fatto domande, riso di gusto, partecipato alle chiacchiere. Che poi, con quattro pennarelli si può disegnare sulla tovaglietta di carta e un gioco di carte fa passare il tempo, nell'attesa delle patatine. Senza isolarsi, senza perdersi.
Ecco, questi genitori del ristorante tra qualche anno andranno dallo psicologo. Cercheranno di capire perchè i loro figli adolescenti hanno tagliato con il resto del mondo, perchè non parlano e non ascoltano. Si dispereranno per quella teste chine, quelle dita febbrili e gli infiniti silenzi.

martedì 10 aprile 2018

Regali



Da quando l'avevo sognata, attendevo il momento giusto.
Perchè uno non valeva l'altro. Dovevo essere arrivata, là dove lei mi aveva mostrato.
E niente, son tanto contenta.

sabato 7 aprile 2018

Posseggo



Posseggo poco, quel che bisogna
ma nel mio regno si ride e si sogna.
Di tre cuscini sono padrona
fantasia floreale, in cima alla poltrona:
legifero che restino nella di me attesa
forma di culla, nicchia sospesa.
Mi proclamo ammiraglio della tazza celeste
nel tè al bergamotto affondo un biscotto.
Sorseggio, e decreto con voce tonante
"mia cara zolletta, squagliati all'istante!".
Il capo io sono di orecchini pendenti
calzini spaiati e fermagli lucenti:
li cambio di posto a mio piacimento
li accoppio, mi addobbo
maestosa mi sento.
Poi esco, vestita di niente.
Comando a bacchetta dei piedi le dita,
le piante, i talloni, la caviglia ardita.
E quando obbedienti si muovono a tempo
quando oscillo e danzo
esilio le scarpe:
il mio, è un esercito scalzo.
Quel che bisogna posseggo, ed è poco
ma non mi si rubi un pendente, un biscotto,
un minuto, un cuscino
una danza, un silenzio
o un solo calzino.


lunedì 2 aprile 2018

E' che

E' che sono stata qui:





  
 

 


Ed è che quando ero là, avevo addosso una forza, un'energia, uno spirito bello e curioso e allegro, anche se dormivo meno di niente. Anche se c'era il vento. 
Non ero mai stanca: neanche uno sbadiglio, un mal di testa, un pensiero bigio, un'uggia.
Sul volo di ritorno avevo appuntato mille cose da raccontare - mari, persone, cannoli, salsedini - e adesso "puf", nessuna parola mi pare abbastanza giusta.
Devo riprendermi, tornare quaggiù.

venerdì 23 marzo 2018

Time

Mi sembra sia arrivata, nonostante il termometro. Me l’hanno detto i calabroni: come sempre di questi tempi, ieri lavoravano alacremente per cementare una decina di vecchi buchi sul muro esterno. Li tappano e poi se ne vanno, non li si vede più. Olli saltava al sole, cercava di prenderli, abbaiava.

Sta accadendo qualcosa che speravo non mi toccasse mai. Non sono fatta per spingere e sgomitare, per alzare la voce e far valere con la forza i miei diritti. Son vigliacca. Mollo, rinuncio, alzo le mani e accolgo la resa. 
Ma non è sano, non proteggo me stessa e le persone che amo. Quindi stavolta scendo in campo. 
Ecco, forse l’averlo deciso mi rende inquieta, esposta. Mai come in questi giorni provo rabbia e insofferenza nei confronti degli orari (ora di cena, ora di alzarsi, ora di andare alla riunione...), degli obblighi, dei tornelli e degli imbuti in cui infilarmi, a cui piegarmi, volente o nolente. 
Mi vien voglia di fare tutto a modo mio.
Di passare un intero pomeriggio a letto con il vassoio posato di lato, un po’ pranzo, un po’ cena.
Di farmi fuori tre stagioni di una buona serie, ore ed ore di assenza, di blackout, ottundimento.
Di stare mezza nuda, che pure non è stagione, ma qualsiasi bottone, elastico, zip, lacciolo, mi pare giogo, cappio.

E ancora mi tormenta la questione del tempo.
Resta l'impressione che qualcosa di incompiuto mi chiami, che un talento, un'inclinazione, chieda a gran voce degno ascolto, giusto spazio. C'è da fare, è richiesta la mia azione (no, davvero, nessuna presunzione) e l'orologio ticchetta. Ho poco da pensare, tocca agire in fretta.


venerdì 16 marzo 2018

Post molto lamentoso


Non ce la faccio più, oggi fanno dieci giorni di tempo di merda. Ok, intervallati da due mezze giornate variabili, ma sai che goduria. Inoltre pare che il fine settimana (nonchè l'inizio della prossima), tenga in serbo fresche e umide sorprese. Ho un bisogno assoluto di star fuori, camminare, annusare, scattare foto. Voglio i baci del sole, voglio le braccia scoperte. E' un'urgenza vitale, tanto che negli ultimi giorni ho cominciato ad annaspare in cerca del respiro. 
Fame d'aria, credo si chiami così.
Che poi il sole basterebbe a farmi contenta per metà, che è già qualcosa. Ma per la contentezza a tutto tondo vorrei che le braccia al sole potessimo metterle in due, possibilmente stesi su una coperta in un mare di crochi e primule. 
Sono cane, lo so e l'ho già detto mille volte. Sono cane da sempre, perchè i cani li capisco da come si muovono, da come guardano, perchè sono allergica ai gatti e, per quanto ci provi, i felini non so toccarli nel modo giusto. Sono cane perchè non godo di spirito svincolato e di lieta indipendenza. Io vivo connessa, fortemente connessa e le cose per me sono belle e bellissime quando le tocco assieme ad altre mani, o le attraverso insieme ad altre gambe. 
E mentre Dama scriveva dei cani dipendenti, della loro (assolutamente reale) ossequiosa fedeltà, ho sentito una fitta al cuore. Ho visto gli occhi dolci e pieni di domande della Olli, così amorevoli da far male, da farmi sentire inadeguata, mai abbastanza attenta, presente e pronta a infilare le scarpe appena smette di piovere, per una sgambata a due.
E tristemente, mi son sentita così tanto cane, così irrimediabilmente cane, da pensare che vorrei un paio di vibrisse.

lunedì 12 marzo 2018

Hobbies


Chiacchieriamo, prima di spegnere la luce. Scherziamo, sulle sue tante e intense passioni, sulla natura che ha, iperattiva.
- Sei fortunato, hai solo l'imbarazzo della scelta.
- Ma anche tu hai sempre mille cose, dai...
- Sì che ne ho mille, ma non sono travolgenti come le tue.
- Non è vero, sei sempre lì che traffichi su qualcosa.
- Boh. Io non ho hobbies. Anzi sì, ne ho uno solo, è che per applicarmi mi tocca aspettare te.
Rido.
- Scema.
- Scemo tu.
Ride.

C'è alll'inizio di ogni storia, un tempo vago e incompiuto in cui i pezzi dell'altro si svelano uno per volta. Mi è sempre tanto piaciuto quello spazio di ovatta e attese vibranti, in cui si può scegliere dove far luce. Le spalle, un ricordo d'infanzia, la curva della schiena, l'inclinazione per il cioccolato, le cartacce sul sedile del passeggero. Ogni volta un frammento si accosta ad altri, si somma al resto, compone un corpo, la sua storia, i suoi moti.
E anche le braccia prendono le misure e i passi, per allinearsi e trovare la cadenza. Le bocche si aprono troppo, poco, le lingue spingono decise, lievi, fino a quando trovano simmetria e concordanza o destano un gemito. Allora sì, va bene così, ti bacerò in questo modo, mi piace, mi piaci, assaggiami qui. Nel mischiarsi delle carni, in quella danza dolce, nelle odorose scie, nelle penombre, gronda la vita, spinge una forza antica. Questo è l'incanto.
Ma come si fa, a non covarne il desiderio, a non volersi immergere in quell'estratto di vita?
Onorare l'amore e tendere all'incanto anche dopo, quando è passato il tempo della scoperta, è per me una scelta consapevole e precisa. Perchè è un niente che la routine di tira dentro e ho lavorato tanto, ho un filo di mal di stomaco, fuori piove, ho litigato con la collega, sono stanca, sta per venirmi il ciclo. Un niente.
E allora io lo coltivo il mio hobby, ci metto passione. Sia mai.

sabato 10 marzo 2018

In pillole

E lucean le stelle
e olezzava la terra...
...E non ho amato mai tanto la vita!

Ho presentato ai ragazzi di quinta la Tosca: trama, testi, arie celebri. Proprio a loro, che per sembrar grandi cantano Rovazzi, Fedez e Fabri Fibra. A loro, che mi dicono Cremonini è vecchio.
Pensavo sarebbe stato difficile mostrare la grandezza di qualcosa che a dieci anni può suonare polveroso, ridondante, tremendamente distante.
Invece no. Non aspettavano altro che il momento in cui, alla fine delle lezioni, ci piazzavamo lì vicini vicini, libretto alla mano e fiato sospeso, a seguir la bella Tosca fra spasimanti e intrighi.
Che alla fine, quel muoio disperato, c'ha commosso tutti.
La maestra ci ha fatto ascoltare Tosca per farci conoscere la musica, il teatro e il canto, così dentro di noi le emozioni scoppiano e abbiamo tante idee per scrivere.
Son soddisfazioni.

E' difficile di questi tempi fare gli educatori. Soprattutto quando guardi con altri occhi - attenti, protettivi - alla rete, agli youtuber, alle storie di Instagram, alle insidie di Fb e agli influencer. Magari vai pure a guardare un po' in rete che faccia hanno questi nuovi guru e quali illuminazioni condividono, condiderando che pilotano scelte, opinioni, consumi.
Ecco, questa è un'influencer e ha 36 mila follower:

Voi direte "ma cosa vuoi che piloti questa cretina?", invece pare che si sia arricchita con la pubblicità e si mantenga grandemente, dopo esser stata colta da fulgido pensiero sulla strada di Damasco. Una trovata che rasenta il feticismo (o semplicemente l'assenza di cervello): la ragazza registra dei video in cui spiaccica la faccia su vari alimenti. E fine, è fatta. 36 mila follower.

Il cosmo, gli dei, Madre Natura, diano agli educatori gli strumenti per crescere ragazzi capaci di pensiero divergente. Amen.

sabato 3 marzo 2018

Chiave


Sette spose per sette fratelli. Lo guardai alla tv dai nonni, avrò avuto quattro anni. Ricordo perfettamente i miei goffi tentativi di emulare qualche passo, in particolare quello in cui si batte energicamente il tacco sull'impiantito.
E' inziato da qui, credo, il mio trasporto per il musical, che ha sempre avuto il potere di condurmi Altrove. In un posto bello, dove la gente canta e batte forte i piedi e piroetta prima di un bacio.


Poi è arrivata Mary Poppins, con il bellissimo sorriso di Julie Andrews e giù a danzare assieme allo spazzacamino intonando cristallina: "com'è bello passeggiar con te Bert, raro per davver sei tu" (la so ancora tutta, parola per parola).


A seguire il Mago di Oz, con lo struggimento che mi dava e tutt'ora mi procura il volto dolcissimo di Judy Garland che attacca una Over the Rainbow senza eguali.
Potrei andare avanti anno per anno, in una meravigliosa escalation tanto personale quanto relativamente condivisibile. Aggiungo solo che per la festa di laurea mi travestii da Satine, di Moulin Rouge e credo sia tutto detto.


L'altra sera ho finalmente visto La La Land, con Gosling e la Stone. Avevo letto le recensioni, pesato i commenti degli amici e della critica. E non so perchè ho procrastinato, forse temevo di aver perso l'incanto, l'occhio sgranato, il piedino che batte il tempo, la lacrima facile. Temevo di dover constatare, che non so più andare Altrove.
Invece non solo li ho raggiunti lassù, sopra la City of stars, ma ci sono arrivata volando, con le braccia spalancate e il sorriso fesso.
Ce l'ho ancora la chiave per Altrove, volevo dirvelo.

mercoledì 28 febbraio 2018

Questioni capestro


Accade che le donne (insicure) pongano quesiti inopportuni, oscuri e penosi.
E se la tua ex compagna del liceo, quella con le tette grosse, ti avesse chiesto di metterti assieme a lei? 
Amore, se io morissi, come faresti tutto solo?
Se ingrasso tantissimo, poi tu mi ami lo stesso?
Metti che una gran gnocca ti attacca bottone sul tram..tu, che fai?
E se un giorno arrivassi a casa e io non ci fossi più? 
Secondo te, sono sciupata?
Insidie ovunque. L'ignaro maschio dovrebbe sapere che nessuna risposta sarà abbastanza buona, appagante o risolutiva. Quindi tanto vale sparare a caso.
Quello che conta è non mostrare leggerezza: va esibito un certo turbamento. Che non significa tentennare, anzi. Perchè se uno tentenna sull'ex compagna di liceo, la vedo duretta.
Nel mio storico le domande capestro sono sparse un po' ovunque, come il prezzemolo. Me n'è venuta in mente una vergognosa, che non oso neanche riportare. Credo che proverò a resettarla.
Insomma il bello è che non mi vengono quasi più. Anzi, direi che non mi vengon più.

sabato 24 febbraio 2018

Di quiz, di chat

Un annetto fa, complice Figlio Piccolo, ho scaricato Quizduello sul nuovo telefono.
Il giochetto ha i suoi anni, ma io l'ho scoperto da poco e mi piace un sacco. 
In sostanza si sfida un avversario casuale (poi con alcuni si fidelizza, soprattutto se si è più o meno allo stesso livello) e ciascuna partita è divisa in sei turni, consistenti ognuno in tre domande a tempo da 20 secondi ciascuna. Le domande si dividono in 19 categorie (letteratura, scienza, sport, tecnologia, attualità...).
Lo scopo è accumulare dei punti, ma io non so neanche quanti punti ho, perchè la sera mi faccio due partitelle per allegria, prima di spegnere la luce.
E fin qui tutto ok.
Una sera noto una busta a fianco dell'avatar dello sfidante, e la pigio. Scopro così che l'applicazione comprende pure una chat (ma poi, a cosa cacchio può servire una chat a due che si scervallano su domande del tipo "quale scienza studia le leggi del moto degli atomi e delle particelle subatomiche?"...).
Da lì in poi, non facevo in tempo a rispondere alla prima domanda che zac!, arrivava il fatidico messaggio per fare conoscenza. Un fastidio. Che io son qui per giocare e poi prendere sonno, mica per fraternizzare con anonimi senza volto, no?
Il primo messaggio in genere la prende larga. Ciao, io sono Matteo.
Altre volte va dritto al sodo. Uomo o donna? Ragazza o signora?
In certi casi lo stile è paleolitico. Cosa sei? Oppure: età?
Non rispondo quasi mai. Uno, perchè non ho voglia, e due, perchè sono su Quizduello. Non su Meetic.
Ma qualche volta, come si può vedere, salta su con la molla la quindicenne linguacciuta e bellicosa che so essere, e mi scappa una vena stronzettta.



Come potete vedere, i soggetti, una volta sondato il terreno (c'è da chiedersi cosa si aspettino di trovare...una che intavoli discussioni sul colore del suo perizoma?), mollano chat e partita ipso facto. Come a dire che son lì per rimorchiare e basta.
La cosa mi mette un po' di tristezza, forse perchè fa pensare alla solitudine, all'isolamento, all'attuale incapacità di porsi frontalmente e fisicamente dinnanzi all'altro, per scoprirlo gradualmente dai gesti, dai silenzi, dalle espressioni del volto. I passaggi saltano tutti: non mi avvicino studiando prossimità e distanze, non cerco il momento giusto per presentarmi, svelarmi, non mi preoccupo di poter essere sgradito. Tanto basta un clic, e l'interlocutore non c'è più.
E poi, per concludere, anche fosse che uno ci prova, dove minchia sono finiti il senso dell'umorismo, l'ironia, il gioco, la voglia di usare in modo anticonvenzionale le parole? La migliore carta che piazzi sul tavolo è Chi sei? Ma per favore.


martedì 20 febbraio 2018

Pesci


Mi stavo appisolando sul divano. Sospesa fra il sonno e la veglia credo di avere immaginato, più che sognato. Ero un pesce d'acqua dolce, un pescione immobile, grosso e brillante trasportato dalla corrente.
Per una come me, tutta un guizzare e nuotare e calarsi giù, è una cosa bella questo nuovo lasciarsi andare. Cazzo Gioia, mica puoi sempre agitare le acque, no?  Qualche volta dovrai pur mollare la presa e guardare le cose scorrere!
Appena ho avvertito quell'inerzia, che mi è parsa ignavia, il cuore mi è partito a mille. Con un repentino colpo di coda ho voltato il mio pescione in direzione opposta e contraria, spingendolo a testa bassa fra i flutti, i sassi, l'urto impetuoso e travolgente dell'acqua azzurra.
Son stata subito meglio. Ecco, io non ho la pasta per stare, io so stare quando lancio alti i sogni, i progetti, le belle idee, e ogni giorno metto giù la mia piccola pietra, per farli sostanza.
Mi tocca sempre guardare avanti, buttare il sacco oltre l'ostacolo, acchiappare desideri da cullare.
E' la mia condanna. Ma forse è anche la mia grazia.

martedì 13 febbraio 2018

Distanze


Sei anni fa partecipavo ad una settimana di formazione intensiva a 400 chilometri da casa. Era la prima volta che lasciavo la mia casella quadrata da sola e mi allontanavo così tanto, e per così tanto tempo.
Si sa, mai tenere fermo qualcuno se davvero lo si ama, se davvero non lo si vuol perdere. E noi eravamo in due a soffocare, limitare, giocare la carta del senso di colpa. Quanta paura.
Ebbene parto col vecchio Peugeot e molte carte geografiche (il vecchio Peugeot non aveva il senso dell'orientamento) e tutto un frullar d'ali dentro, neanche mi apprestassi ad una traversata oceanica a bordo di un guscio di noce.
C'è un diarietto rosso in cui sono fissati, come piccoli fuochi accesi, tutti gli incontri, le suggestioni, le stranite colazioni (era tutto da reimparare, tutti i gesti da ritrovare), l'intensità di odori e colori e sapori di quela settimana gialla d'agosto che pareva imbastita per me. 
Nel mio stesso albergo alloggiavano diversi corsisti; fra questi una donna matura con l'aria fiera e bella, che mi catturò da subito e che da subito cercai di avvicinare. Stingemmo amicizia il secondo giorno durante una pausa caffè e per il resto della settimana, appena le lezioni terminavano, condividevamo la passeggiata fino all'hotel, un apertitivo, una cena in piazza. 
M. era una terapeuta, una nonna, una scrittrice e aveva dentro storie, così tante storie che non mi satancavo mai di sentirla parlare.
Una sera, mentre ci perdevamo tra i vicoli in quel languore estivo, le chiesi dell'amore. Volevo sapere se l'uomo a cui era sposata la amava, se lei lo amava. 
Prima di raccontare, prima di nutrire il mio cuore affamato, sospirò e mi sorrise come a chiedermi se ero pronta.
Sappi di lei, una sposa troppo giovane e due figli arrivati subito, uno via l'altro. Mi parlò dell'amore che ha forme diverse e di com'è diverso il nostro modo di amare attraverso il tempo.
Adesso sì, poteva dire autentico e profondo il sentimento che la legava al marito, era certa di quel sentire e lo definiva amore. Ma non prima. Prima di incontrare l'altro, quello che aveva scombinato tutti i suoi fogli, quello fuori dal recinto, che aveva fatto impallidire le sue minute, esili certezze.
Mi parlò della passione che acceca e devasta, del corpo che muta e si protende e si fa molle, di squallidi motel e folli corse in autostrada. Disse che l'aver scalzato i paletti, l'aver buttato all'aria i suoi disegni di bambina, l'essersi trovata scoperta, nuda, sola, le aveva permesso di capire cosa realmente le appartenesse e volesse per sè.
Ascoltavo trattenendo il fiato, con la sensazione precisa che quella storia avesse a che fare con la mia. 
Pochi mesi dopo, mentre attraversavo l'Italia con gli occhi gonfi di notti bianche e nostalgia, la chiamai, per sentire la sua voce.

sabato 10 febbraio 2018

Bulli


Figlio Piccolo, quando era proprio piccolo, faceva paura. Paerva un mini samurai in versione accelerata e torva. Incazzoso, rissoso, polemico. Non so neanche contare le volte in cui ho fatto da giocoliera coi suoi capricci, finendo per scavalcarlo - lungo disteso - in qualche corsia di supermercato mentre battendo i pugni urlava che ero una mamma brutta e che ne voleva un'altra.
Un giorno, mentre lo portavo sul sellino della bici davanti (indi per cui non arrivava a due anni), un tipo che scendeva dall'auto parcheggiata aprì incautamente la portiera, senza vedere che stavamo transitando. Sterzai di colpo e cadendo finimmo in mezzo alla strada, ma in modo abbastanza lento e di fianco, perchè con tutte le mie forze di mamma evitai l'impatto a terra della parte anteriore. Lui, superato il primo attimo di shock, mentre io ero ancora seduta sull'asfalto, si liberò dalla chiusura, scivolò fuori e cominciò a picchiarmi, dicendo "sono caduto per colpa tua". Una scena piuttosto esilarante, che divertì - e impietosì - non poco i soccorritori.
Noi, abituati col più grande che è l'incarnazione della flemma e del savoir faire, non sapevamo che pesci pigliare.
Adesso ci si ride su. Non mi par vero che questa creatura bionda, lieve, sottile e silenziosa, sia proprio quello stesso ceffo dal testone rotondo e dagli occhi febbrili.
Questo per dire che quando lo inserii alla scuola dell'infanzia ero veramente preoccupata. Feci alle sue meravigliose insegnanti tutte le premesse posssibili e le preparai ai peggiori scenari. Volevo che fossero pronte, attrezzate e consapevoli.
Verso dicembre, la maestra più anziana mi disse sorridendo "siamo molto contente, ha smesso di lanciare le sedie". E me lo riferì con autentica gioia, come per condividere un grande successo.
Ecco, io in quella fase sono sempre stata una specie di monolite. I no erano no e non c'era scenata che tenesse. Gli orari erano orari. Le regole, regole. E cazzo se mi è costato, in termini di fatica, dispiacere, rimorsi e lacrime. Ma ho tenuto botto.
Quando le maestre, con tutte le cautele (mi raccomando mamma, adesso non andare a casa a fare prediche, ce la vediamo noi!), mi dissero che aveva puntato un "debole" e stava un po' infierendo, andai come una furia a casa, a fare prediche. Anzi, per tutto il tempo, mentre guidavo sulla strada del ritorno, meditai su cosa avrei dovuto dire per essere puntuale ed efficace.
Così lo presi da parte, mi sedetti esattamente davanti a lui e dissi semplicemente "non deve succedere mai più". Certo che in due parole spiegai la questione dei forti coi deboli. Certo che gli chiesi perchè sentiva il bisogno di piegare qualcun altro per affermarsi. Ovvio.
Ma quello che restò, in mezzo alla cucina fu quel "non deve succedere mai più". 
E non successe mai più.

Per questo io mi chiedo, in questi giorni di bulli e vittime, di soprusi e vessazioni, dove stavano e dove stanno i genitori dei carnefici e cos'hanno fatto, quali scelte precise, per salvare i loro figli da una vita così meschina e vuota.

sabato 3 febbraio 2018

Cerchi rissa?

Giovedì ho fatto un paio di visite per verificare una cosa poco bella che lo specialista vorrebbe escludere. Non ho ancora finito, ultimo esame prossima settimana.
In verità non sono preoccupata, ma ultimamente sono poche le cose che mi gettano nell'ansia prematura e infondata che di solito anticipava un qualche snodo, una qualsiasi biforcazione.
E insomma sul corridoio si apre una porta e il tecnico, una donna di mezza età dall'espressione arcigna e grigia, pronuncia con voce stentorea il mio nome. Guardandosi attorno. Buffo, perchè in sala d'aspetto ci sono solo io.
"Eccomi"!", dico. Mi alzo e le vado incontro con un sorriso cordiale, porgendo le mie carte.
Capita che si percepisca da subito l'ostilità di chi ci sta di fronte, come una specie di cortina che siamo invitati a non valicare. Ecco, è andata esattamente così: la signora (ancor più respingente di quanto mi era parsa) era profondamente infastidita dalla mia presenza. E il mio percepito raramente manca il bersaglio.
Magari la donna aveva appena ricevuto una brutta notizia o stava nervosamente sostituendo un collega malato. Nella sostanza però, mi guardava con lo stesso sdegno che la mia prof delle medie riservava a quelli che definiva "adolescenti che si lavano poco". Una specie di schifo misto a biasimo.
I modi, le parole, erano freddi e scostanti. Quasi sgarbati.
E' che io in situazioni così divento una belva, e questo non aiuta. Non sopporto, non ho mai sopportato gli individui che si arrogano il diritto di trattare in modo poco educato chi si trova (inevitabilmente) in posizione a loro subordinata.
Così ho cominciato a remare contro, oppositiva, manco avessi tre anni.


L'esame, che richiede una certa collaborazione da parte del paziente e risulta piuttosto faticoso, è andato di merda. Mi era stato detto che la procedura prevede delle pause, da concordare con il tecnico, ma la signora faceva orecchie da mercante. 
Ferma. Le ho detto FERMA. Può stare ferma?
Poco è mancato che la fanculassi e me ne tornassi a casa.
Toccherà ripeterlo, mi sa.

La vita è così, stupisce

La vita è così, stupisce

Mi piace

  • Paolo Rumiz
  • Passenger
  • Walter Bonatti e Rossana Podestà
  • pita ghiros