Insegno per scelta in una scuola in cui si riconoscono e si nutrono i talenti individuali. Sei bravo in matematica, ti destreggi con il calcolo e maneggi i decimali come fossero caramelle? Allora in seconda potrai fare la radice quadrata. Sei uno scrittore in erba? Ti sarà data la possibilità di uscire dal testo stereotipato e infantile, di incontrare i grandi "autori", di produrre racconti, trame, storie. Magari anche un libro autoprodotto che potrai leggere ai compagni.
Ho sempre pensato che questo valorizzare l'individuo dovesse andare a braccetto con una consapevolezza dei limiti, con un'attenzione rispettosa dell'altro e di quanto ci sta intorno.
Come dire, riconosco la tua genialità e la tua bellezza, ma sappi che non esisti solo tu, che vivi calato in una realtà fatta di altre individualità (umane e non) degne di altrettanto stupore e ascolto.
Ma qualcosa non torna. Porti i bambini al museo e mentre un addetto illustra con passione ed entusiasmo gli oggetti presenti nella stanza, li osservi. Uno sbadiglia. L'altro pone domande complesse, troppo complesse, così complesse da essere insensate, fuori luogo (ma cosa vorrà dimostrare?). Uno interrompe, fa rumore, come a cercare sguardi. L'ultima, alla quale faccio segno di tirar giù la scarpa da una sedia antica, mi chiede col labiale "ma perchè??", senza dare cenno di aver compreso il mio gesto eloquente.
Sono tornata a casa con la testa piena di domande. Dove si sbaglia? Perchè faticano a decentrarsi, a cogliere quanto ruota, respira, si muove, intorno a loro?
Poche ore dopo, attendo il mio turno nella sala d'aspetto del dentista. Scrivo un messaggio alla collega-sister.
Sono avvilita amica. Oggi ho le mani vuote.
Qualcuno occupa la sedia a fianco.
"Ciao".
Lo guardo distratta. Ne stimo l'età al volo: sette e mezzo.
"Ciao", rispondo.
"Come ti chiami?", mi chiede.
"Gioia. E tu?"
Si chiama Marco, probabilmente dovrà mettere l'apparecchio. La mamma e il papà stanno facendo richiesta per il finanziamento. Dice che sono operai, e lavorano sempre. Racconta che la sua mamma sceglie per lui sempre le cose migliori. Per esempio ha deciso di non mandarlo a scuola in paese, perché lì c'è una maestra che si fa le unghie in classe, e con le stesse forbicine poi taglia il sacchetto delle caramelle che distribuisce ai bambini. Ridono gli occhi rotondi dietro le lenti un po' spesse, mentre esclamo "orrore!".
Fa la seconda. Snocciola tutto quello che ha imparato quest'anno, orgoglioso.
"E le paroline capricciose? Non le avete fatte?", dico.
Mi squadra, mi misura, sorride. "Ma sei una maestra? Non sembra".
E' tra i più bravi, mi spiega, solo una volta è finito fuori dalla porta. Che se ti capita, devi stare fermo con la schiena poggiata al muro.
A questo cuor contento, tutto pare bello, desiderabile, degno di nota. E' curioso ma non invade, è interessato e chiede con garbo,
Mi chiamano, devo andare, quasi mi dispiace.
"Ciao Marco. Grazie per la bella compagnia".
Marco ha poco. Dal poco nascono desideri, e i desideri muovono sogni, e i sogni richiedono mani lievi, parole composte, occhi accesi.